Centrale Montemartini. Una luce nuova per Roma, il libro

Centrale Montemartini. Una luce nuova per Roma. È questo il titolo del nuovo libro edito da De Luca Editori d’Arte che racconta di uno dei monumenti più affascinanti, complice una felice destinazione d’uso, dell’archeologia industriale a Roma.

Questo libro è il risultato degli studi e delle esperienze compiute negli anni presso il Museo Centrale Montemartini, e vuole essere uno strumento, per pubblico e addetti, a servizio del ‘cantiere’ Montemartini, laboratorio di sperimentazione museologica per l’Archeologia Industriale romana.

Il testo si propone due obiettivi: da una parte, raccontare la storia della centrale termoelettrica, le sue trasformazioni e fasi di sviluppo, intrecciandole con i fatti storici e i protagonisti che le hanno determinate; dall’altra, non trascurare il discorso tecnico, la funzione produttiva, che è la ragione d’essere stessa della fabbrica e dei macchinari che essa ospitava. È infatti proprio in questi due ambiti, quello storico e quello tecnico-funzionale, che risiede il complesso valore culturale di questo spazio così suggestivo, e unico.

Libro, Centrale Montemartini. Una luce nuova per Roma: introduzione dell’autore Antonio David Fiore

La ex centrale termoelettrica Giovanni Montemartini è un esempio unico di Archeologia Industriale. Tra gli opifici dismessi riadattati a nuove funzioni a Roma è il solo ad aver conservato buona parte del macchinario originariamente funzionante nell’impianto. Tra gli ex edifici industriali che, in Italia e all’estero, hanno conservato i meccanismi di produzione, è uno dei pochi a non essere stato trasformato esclusivamente in un museo di sé stesso, o ad offrire spazio per una esposizione generalista di tipo tecnico-scientifico. Il Museo Centrale Montemartini è l’unico museo al mondo a realizzare una commistione di reperti archeologici e tecnico-scientifici: il risultato è affascinante.

Eppure, questo esperimento coraggioso di musealizzazione ibrida non è stato il frutto di una pianificazione coerente o di un piano a lungo termine, tutt’altro. L’esposizione archeologica nasce nel 1997 come mostra temporanea, per essere trasformata in un allestimento permanente solo quattro anni dopo, quando il sorprendente successo dell’iniziativa aveva reso la centrale Montemartini un luogo di affezione che la cittadinanza aveva acquisito come stabile, forse anche per il suo raggiungere una periferia, come l’Ostiense, in cerca di nuova identità.

Per questo motivo, il connubio archeologia/tecnologia, così seducente dal punto di vista visivo e allo stesso tempo suggestivo di ulteriori relazioni e letture, da un punto di vista museologico è rimasto incompiuto, per lungo tempo, apparentemente immobilizzato. Apparentemente, perché nel frattempo, dietro le quinte, si è pazientemente investigato archivi e fondi storici, si è raccolto e ordinato il materiale documentario riguardante la centrale, si è studiato tutto il patrimonio tecnologico, lo si è catalogato ed inventariato; si è fatta ricerca presentandone i risultati alla comunità scientifica nazionale ed internazionale. Si è anche operato all’interno del Museo, con piccoli e mirati interventi di riequilibrio tra le diverse ‘voci’ che i visitatori sono invitati ad ascoltare.

Le pagine del libro sono il risultato degli studi e delle esperienze fatte e, allo stesso tempo, un ulteriore strumento, per pubblico ed addetti, a servizio del ‘cantiere’ Montemartini, laboratorio di sperimentazione per l’Archeologia Industriale romana. Esse si propongono due obiettivi: da una parte, raccontare la storia della centrale Montemartini, le sue trasformazioni e fasi di sviluppo, intrecciandole con i fatti storici e i protagonisti che le hanno determinate; dall’altra, non trascurare il discorso tecnico, la funzione produttiva, che è la ragione d’essere stessa della centrale e dei macchinari che essa ospitava. Conseguentemente, il testo è diviso in due parti. La prima descrive, seguendo un ordine cronologico, l’evoluzione del complesso dalle origini dell’impresa municipale fino alla dismissione degli anni ’60, la riconversione in Art Center ACEA e la successiva trasformazione in sede espositiva e quindi in museo. La seconda parte, invece, prende in considerazione l’aspetto tecnico-funzionale della centrale e mira a definirne l’identità attraverso un’interpretazione dei cicli produttivi, del contributo delle singole macchine e delle caratteristiche dei vari spazi… continua

 

Titolo:Centrale Montemartini. Una luce nuova per Roma
Autore: Antonio David Fiore
Casa Editrice:De Luca Editori d’Arte
ISBN:978-88-6557-450-8
Lingua: italiano




Le centrali idroelettriche Edison in Lombardia | VIDEO

Scopriamo alcune delle centrali idroelettriche Edison in Lombardia, monumenti industriali di particolare bellezza.


Attraverso una serie di video realizzati da Edison, “la più antica società europea nel settore dell’energia e tra le principali società energetiche in Italia”, abbiamo l’opportunità di fare un viaggio alla scoperta di luoghi dal fascino unico che legano sapienza ingegneristica a gusto architettonico, luoghi che raccontano la nostra storia economico-industriale.

Ma prima di tutto è interessante capire come funziona la centrale idroelettrica. Lo scopriamo grazie ad un video sempre prodotto da Edison

 

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La centrale idroelettrica Bertini di Edison

La Centrale idroelettrica Bertini realizzata a Cornate d’Adda (MB), località Porto Inferiore, è la più antica centrale idroelettrica del gruppo Edison. Quando fu inaugurata, nel 1898, era il più grande impianto elettrico d’Europa e il secondo nel mondo… Continua qui

 

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La centrale idroelettrica Esterle di Edison

La centrale idroelettrica Esterle di Cornate d’Adda (MB), fu costruita tra il 1906 e il 1914. La centrale è stata dedicata alla memoria di Carlo Esterle, consigliere delegato della società Edison fino al 1918. Per l’epoca si trattava di un impianto di notevole importanza e capace di produrre 30.000 Kilowatt… Continua qui

 

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La centrale idroelettrica Guido Semenza di Edison

Nel 1917, Edison decise di sfruttare la quota ancora disponibile, nella stagione estiva, dell’energia dell’Adda e fu avviata la costruzione dell’ultimo, il più piccolo, degli impianti dell’Adda, quello di Calusco d’Adda (BG), poi intitolato all’Ing. Guido Semenza (direttore tecnico della società)… Continua qui

 

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Le centrali di S. Stefano, Venina e Publino di Edison

Gli impianti idroelettrici Edison denominati Armisa, Publino, Zappello, Vedello, Venina utilizzano le acque dei torrenti che nascono dalle Prealpi Orobie, tra cui i principali sono Malgina, Armisa, Caronno, Livrio, Venina, e dei loro affluenti, a loro volta affluenti di sinistra dell’Adda

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La centrale idroelettrica Taccani di Trezzo sull’Adda

La centrale idroelettrica Taccani di Trezzo sull’Adda, nella provincia di Milano, perfettamente conservata ed ancora attiva di proprietà Enel, è un meraviglioso esempio di archeologia industriale.

La centrale Taccani nella cornice del Parco Adda Nord

Verso la fine dell’Ottocento, lungo le sponde del fiume Adda, sorsero alcune delle più belle centrali idroelettriche realizzate in Italia. Esse, fruttando la forza delle acque fluviali, producevano l’energia necessaria al funzionamento di diverse manifatture, nonché all’illuminazione della città di Milano. Tra queste centrali, la più possente e splendida nelle sue architetture è proprio la centrale Taccani.

La centrale Taccani e la sua storia

La centrale Taccani è situata sull’asta fluviale del fiume Adda, all’interno del Parco Adda Nord, alla base del promontorio roccioso che determina l’ansa del fiume detta di Trezzo e sulla cui sommità rimangono le rovine del castello costruito nel 1370 da Barnabò Visconti sui resti di una precedente struttura longobarda.

L’impianto, costruito tra il 1903 e il 1906, fu realizzato dall’Architetto Gaetano Moretti che ricevette incarico dall’industriale Cristoforo Benigno Crespi (1833-1920), titolare di una celebre industria cotoniera e fondatore del villaggio di Crespi d’Adda (oggi Patrimonio dell’UNESCO), di costruire un impianto idroelettrico che fornisse energia al cotonificio ma nel contempo che fosse ben inserito nel contesto ambientale.

Fu così che il Moretti, utilizzando la caratteristica pietra locale chiamata “ceppo dell’Adda” e accogliendo i moduli verticalizzanti suggeriti dalla sovrastante torre viscontea, riuscì a produrre un’opera di grande armonia compositiva, perfettamente integrata nell’ambiente fluviale che la circonda e nello sfondo costituito dai ruderi del castello medievale. Nell’ottica della salvaguardia ambientale appare di notevole interesse anche tutela della fauna ittica con la realizzazione in sponda sinistra della scala di risalita del pesce. I lavori tecnici dell’impianto furono affidati agli ingegneri Adolfo Covi, Alessandro Taccani e Oreste Simonatti.

La centrale idroelettrica di Trezzo costituiva, per l’epoca in cui fu costruita, un vero e proprio “polo energetico” in quanto comprendeva oltre alla sezione idroelettrica con dieci generatori che fornivano una potenza di 10.000 kW, anche una sezione termoelettrica con quattro generatori a vapore della potenza complessiva di 4.000 kW destinati ad integrare la produzione idroelettrica durante le magre invernali del fiume Adda.

La centrale Taccani oggi: energia pulita nel tempo

A metà degli anni 90 è stato operato un consistente intervento di miglioramento e ammodernamento tecnologico e ambientale che ha restituito alla centrale piena efficienza e sicurezza, nonché il mantenimento di elevati standard di affidabilità. Nella centrale, oggi, sono in funzione 6 gruppi turbina/alternatore, costituiti da 4 turbine ad elica e 2 turbine Kaplan in grado di utilizzare portate fino a 180 m3/sec. La potenza efficiente è di circa 10.500 kW e l’energia producibile è in media di circa 65 milioni di kWh, sufficiente al fabbisogno annuo di oltre 24.000 famiglie.

La centrale Taccani luogo di cultura

Non solo la centrale Taccani oggi rappresenta un luogo unico da visitare per gli amanti dell’archeologia industriale, per gli studiosi di ingegneria idraulica e per tutti coloro che amano andare alla scoperta di luoghi particolari legati alla storia economica e produttiva del territorio, ma è anche in grado di trasformarsi in location eccezionale per eventi prestigiosi.

Sito archeologico industriale: la Centrale idroelettrica Taccani
Settore industriale: Settore energetico
Luogo: Comune di Trezzo sull’Adda (MI), Lombardia, Italia
Proprietà e Gestione: La Centrale Taccani è di proprietà Enel
Testo a cura di: si ringrazia l’ufficio comunicazione Enel
Immagini a cura di: Si ringrazia l’ufficio comunicazione Enel




Valdarno: le miniere di lignite ed il MINE Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia

Le miniere di lignite ed il MINE Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia: storia del nostro patrimonio industriale in Valdarno in Toscana.

Chi si trovasse a percorrere la Strada delle Miniere con sguardo distratto non potrebbe cogliere l’essenza e l’entità delle profonde trasformazioni sociali e ambientali che si sono succedute per oltre un secolo nel territorio verdeggiante che si dipana davanti ai suoi occhi.

“ENEL PRODUZIONE S.p.A. – Unità di Business Santa Barbara – Miniera Santa Barbara”.
Questo è ciò che recita, a lettere bianche su sfondo blu, il cartello indicatore situato sotto le enormi torri di raffreddamento della Centrale Termoelettrica di Santa Barbara: una semplice riga di testo per identificare il luogo dove, dal 1875, si è sviluppata una delle più straordinarie storie industriali del nostro Paese.

Una storia che nasce per volontà di un lungimirante gruppo di industriali toscani che intuisce la possibilità di sfruttare a fini produttivi quel minerale che fa capolino qua e là nelle campagne situate a ovest dell’Arno, infondendo nell’aria, se incendiato, un odore acre e non gradevole.

È di quegli anni l’apertura delle prime miniere in galleria: uomini che scavano nelle viscere della terra, riempiono vagoncini e chiatte da portare in superficie trainandoli con cavalli e argani elettrici, dove altri uomini, donne e ragazzi selezionano il materiale dividendo lo sterile dalla lignite, i pezzi grossi da quelli tritati, la lignite “bazzotta” da quella “secca”.

Nel XX secolo l’attività si sviluppa: a cavallo delle due guerre nelle miniere si contano circa 5.000 lavoratori; una risorsa straordinaria in grado di trainare vigorosamente, e per alcuni decenni, le sorti dell’economia del Valdarno Aretino.

Con la fine del secondo conflitto mondiale e con l’avanzare delle impietose regole di mercato viene messa a nudo la scarsa competitività della lignite; dopo un periodo di lotte fra la società mineraria e i lavoratori riuniti in cooperativa per la prosecuzione dell’attività di estrazione, si giunge a metà degli anni ’50 alla definizione di un nuovo progetto di coltivazione mineraria che prevede lo scavo a cielo aperto della lignite e il suo conferimento ad una nuova centrale termoelettrica da realizzarsi a bocca di miniera.

Tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ’60, con l’acquisizione da parte di Enel della concessione mineraria di Santa Barbara, potenti macchine a catena di tazze cominciano l’asportazione del materiale sterile di copertura del banco di lignite, che ha uno spessore medio di 80 metri, e lo depositano nei cavi di estrazione precedentemente esauriti o in valli limitrofe, fino a ridisegnare completamente l’orografia di circa 3.000 ettari di territorio.

Alla fine dell’attività estrattiva, avvenuta nel 1994, i movimenti di terra sono nell’ordine di 390 milioni di metri cubi di terreno sterile e di circa 40.000 tonnellate di lignite, con un cambiamento sostanziale del paesaggio caratterizzato da una miniera a cielo aperto che in questi ultimi 20 anni è stata oggetto di visite e iniziative per le sue caratteristiche da “paesaggio lunare”.

Oggi, dei circa 3.000 ettari di territorio inizialmente interessati dal Comprensorio Minerario, circa 1.300 ettari sono stati restituiti alla collettività; sui restanti 1.700 ettari sono in corso le operazioni di riassetto ambientale, che porterà, nel giro di qualche anno, alla chiusura completa dell’attività mineraria: si tratta di uno dei più grandi progetto di riqualificazione ambientale e paesaggistico a livello nazionale, che porterà alla creazione di due grandi laghi, all’inalveazione di tredici torrenti, alla messa in sicurezza di intere colline, alla rinaturalizzazione di centinaia di ettari di territorio nel rispetto della biodiversità e alla realizzazione di strutture viarie, piste ciclabili, aree industriali.
Una rinascita completa attraverso una minuziosa opera di ricucitura con il territorio circostante e con la sua società, nel rispetto dell’ambiente e della storia delle migliaia di persone che alla Miniera di Santa Barbara hanno dedicato la loro vita, garantendo al Valdarno sviluppo economico e sociale.

MINE: il Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia

Il museo MINE mostra in modo interattivo le vicende di una popolazione legata per oltre cento trent’anni alle miniere di lignite: sopravvivenza economica e dannazione del nostro patrimonio industriale.

Il nome MINE deriva da un antico vocabolo italiano usato, come sinonimo di miniere, da Lodovico Ariosto nell’Orlando Furioso all’inizio del Cinquecento. Abbiamo, nello stesso periodo, la prima documentazione della presenza della lignite nel Valdarno, anche se per il suo sfruttamento industriale bisogna aspettare gli anni Settanta dell’Ottocento.

Il complesso museale documenta e valorizza la storia del territorio di Cavriglia e in particolare le vicende minerarie che hanno modificato profondamente una parte rilevante di questo territorio ed è ospitato in alcuni edifici nella parte alta di Castelnuovo dei Sabbioni. Il resto del vecchio borgo fu abbandonato e in parte distrutto dall’attività mineraria dell’ultimo periodo caratterizzata dall’escavazione a cielo aperto. I grandi escavatori seguivano il filone della lignite e buttavano giù tutto quello che trovavano: case coloniche, cimiteri, antiche chiese, castelli e borghi. Tra questi Castelnuovo dei Sabbioni che venne lambito dallo scavo al punto da intaccarne la stabilità e da costringere la popolazione ad andare a vivere altrove.
Rimane, all’inizio della strada, un sacrario che ricorda le 74 vittime civili dell’eccidio perpetrato dai nazisti il 4 luglio 1944. Alcune case in rovina contornano la strada che conduce alla parte superiore dell’abitato, che comprende alcuni edifici recentemente recuperati e rifunzionalizzati in spazi museali: la ex chiesa di San Donato, adibita a spazio polifunzionale, il centro espositivo ed una palazzina degli anni Venti del Novecento utilizzata come centro di documentazione e spazio per attività didattiche. La logica comune che pervade questi spazi è fortemente tesa al coinvolgimento dello spettatore per una conoscenza approfondita del patrimonio culturale conservato.

Il Percorso museale del MINE si sviluppa attraverso sette sale dedicate alla storia e alle vicende minerarie secondo un itinerario che inizia dalle prime notizie documentate sul giacimento di lignite, per poi passare allo sviluppo dell’attività mineraria nel secondo Ottocento e alle prime lotte sindacali all’inizio del Novecento. Il percorso si concentra poi sulle tecniche di scavo nella miniera in sotterraneo e sulla vita del minatore. La ricostruzione di un tratto di galleria permette ai visitatori di immedesimarsi nella penombra, nei diversi rumori e negli gli odori di una miniera di lignite. La galleria termina uno spazio che mostra le vicende del territorio dagli anni Trenta agli anni sessanta del Novecento. Trent’anni densi di storia con lutti, quali quelli provocati delle stragi nazista sulla popolazione maschile nel luglio del 1944. Poi le lunghe lotte e le forme di autogestione del dopoguerra, accompagnate da forme di partecipazione e di solidarietà da tutta Italia con invio di aiuti alimentari alle famiglie degli operai in sciopero. Infine i cambiamenti delle tecniche di coltivazione; da quelle in galleria a quelle a cielo aperto. Si passa da una strumentazione molto semplice mostrata nella galleria ad un industrializzazione centrata su grandi macchine complesse elementi portanti di automatismi che permettono un enorme aumento di produzione ed una contemporanea riduzione di manodopera.
L’itinerario si chiude con la presentazione della trasformazione del territorio dovute all’attività mineraria e al suo riassetto con un tecnologico tappeto virtuale che permette in base ai movimenti del visitatore la proiezione di differenti sequenze di immagini. Punto caratteristico dell’allestimento è l’interazione con le moderne tecnologie che permettono al visitatore di essere soggetto attivo nella conoscenza dei temi presentati. È presente una figura parlante, che rappresenta Priamo Bigiandi, un personaggio simbolico della storia territoriale che, azionato dal visitatore introduce alla visita, vi sono poi dei touch screen, un’installazione artistica per ricordare la strage dei civili il 4 luglio 1944, un tappeto virtuale finale ed inoltre possibilità di esperienze tattili ed olfattive che rendono particolarmente densa la visita al museo.

La visita continua all’esterno in una corte che domina un ampio panorama caratterizzato da un sottostante lago e dalle torri refrigeranti della centrale elettrica di Santa Barbara dove veniva utilizzata la lignite per essere trasformata in energia elettrica. La centrale funziona ancora e dalle sue eleganti torri, una è ancora in attività, è possibile vedere ancora levarsi un pennacchio di fumo bianco che ricorda come il passato energetico non si è ancora concluso, anzi Cavriglia sta vivendo una seconda età dell’energia. Infatti oltre alla centrale elettrica è attivo da alcuni anni, nel territorio, un importante complesso Fotovoltaico ed il museo sta progettando un ampliamento del suo allestimento per mostrare accanto alle forme di sfruttamento dell’energia (i combustibili fossili) di ieri, quelle moderne: il sole. Un aspetto importante dell’attività del museo è la didattica per facilitare il passaggio di saperi da una generazione all’altra in modo da creare , nel tempo una continuità nella costruzione culturale della popolazione e per mostrare ai turisti un esempio di storia sociale del territorio.

Info:
Museo delle Miniere e del Territorio e Centro Documentazione del Museo
via XI Febbraio – Vecchio Borgo di Castelnuovo dei Sabbioni – Cavriglia (Ar)
Tel. 055 3985046 email: info@minecavriglia.it

Sito archeologico industriale: la Miniera di Santa Barbara e MINE Museo delle Miniere e del Territorio
Settore industriale: Settore minerario e della Energia
Luogo: Comune di Cavriglia (AR), Toscana, Italia
Proprietà e Gestione: La miniera di Santa Barbara è di proprietà Enel
Testo a cura di:per la parte relativa al sito minerario si ringrazia l’ufficio comunicazione Enel; per la parte relativa al Mine si ringrazia il Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia
Immagini a cura di: Si ringrazia l’ufficio comunicazione Enel ed il MINE Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia




La centrale idroelettrica di Fies in Trentino – Alto Adige

La centrale idroelettrica di Fies, frazione del comune di Dro in provincia di Trento, è un dei luoghi della archeologia industriale che oggi rivivono attraverso l’arte contemporanea. 

 

 

Lo sviluppo dell’industria idroelettrica in Trentino Alto Adige

Edificata sulla riva del fiume Sarca, la centrale di Fies iniziò la produzione nel 1909 al fine di coprire il fabbisogno energetico del Comune di Trento, delle utenze industriali della città e delle nascenti tranvie elettriche che erano state progettate per unire il capoluogo alle valli del Noce e dell’Avisio.

La città di Trento già disponeva a quel tempo di un impianto per la produzione di energia idroelettrica nei pressi di Ponte Cornicchio, che sfruttava la forza idrica del torrente Fersina. Benché di ridotta capacità, la realizzazione di questa prima centrale, compiuta nel 1890, costituì una tappa importante per lo sviluppo dell’industria idroelettrica dell’intera area trentino-tirolese. In quel periodo, caratterizzato da un clima di fiducia nel progresso tecnico e sociale e, per il Trentino in particolar modo, tinto da istanze di emancipazione culturale ed economica che di lì a poco sfoceranno in pieno irredentismo, altre municipalità locali seguivano l’esempio della città trentina: Arco (impianto di Prabi, 1892), Riva del Garda (centrale alle foci del Ponale, 1895), Rovereto (centrale alla Flora, 1899), Pergine Valsugana (primo impianto a corrente alternata a Serso, 1893).

Già quindi si evidenziavano le premesse per uno sviluppo promettente dell’industria idroelettrica locale. Se in una prima fase, quasi sperimentale, la realizzazione di questi impianti era rivolta a dimostrare i positivi risultati di una nuova industria (non mancavano atteggiamenti in parte scettici e negli anni antecedenti la costruzione delle prime applicazioni pratiche si svolsero numerose esposizioni pubbliche organizzate dalle società elettriche che fornivano le principali apparecchiature), in un periodo immediatamente successivo sarebbero invece emerse le problematiche inerenti gli aspetti gestionali e organizzativi: la crescita degli uffici tecnici comunali e il loro successivo consolidarsi in forma autonoma quali aziende municipalizzate (questo avvenne in particolare per Trento e Rovereto).

 

La centrale Fies e la sua storia

In questo frangente si colloca la realizzazione dell’impianto di Fies. Posto di fronte alla necessità di espandere l’offerta di energia elettrica per l’industria locale (che in parte già si stava dotando di piccoli impianti privati) e ancor più per le esigenze che scaturivano dalle progettate ferrovie a scartamento ridotto (la sola ad essere realizzata sarà poi la tranvia Trento-Malé), l’ufficio tecnico comunale stava in particolare valutando due alternative: una riguardava lo sfruttamento delle acque dell’Avisio, con centrale a Lavis, a nord di Trento, l’altra l’utilizzazione delle acque del bacino del Sarca. Una terza alternativa prevedeva la realizzazione di una centrale unica insieme con la città di Rovereto, ma l’accordo non venne mai perfezionato vista poi la decisione di Rovereto di realizzare, nel 1906, un importante impianto al Ponale.

Avviati i primi studi sullo sfruttamento del fiume Sarca già sul finire dell’Ottocento, nel 1903 il Comune di Trento ottenne la concessione dal Capitanato distrettuale di Riva. Il progetto iniziale dell’impianto venne sviluppato dall’ing. Domenico Oss e in seguito rielaborato dall’ing. Antonio Fogaroli. La Giunta comunale decise per questo progetto perché giudicato ottimale per la parte idraulica, si osservava inoltre che la maggior distanza rispetto alla soluzione alternativa che prevedeva la centrale di Lavis non avrebbe presentato rilevanti difficoltà tecniche dal punto di vista del trasporto dell’energia elettrica.

L’impianto venne realizzato tra il 1906 e il 1909, sotto la direzione lavori dell’ingegnere municipale Domenico Fogaroli, mentre l’eclettica veste architettonica si deve all’architetto Marco Martinuzzi.

Le caratteristiche, relativamente alla parte idraulica, prevedevano: la derivazione del fiume Sarca a Pietramurata con un canale di alimentazione che conduceva al lago di Cavedine (serbatoio), un’opera di presa nella parte meridionale del lago che serviva il bacino di carico e quindi sette condotte forzate che alimentavano le turbine (Francis) della centrale. Quest’ultima, destinata ad ospitare 2 gruppi a corrente continua da 160 kW e 6 gruppi da 2.000 kVA, nei primi anni di esercizio aveva una disponibilità pari a 3.000 kW. La linea ad alta tensione, in alcuni tratti realizzata con cavo interrato, serviva la stazione di trasformazione principale di Trento, ora demolita.

Già con l’entrata in funzione dell’impianto tuttavia il Municipio di Trento aveva esaurito la quasi totalità dell’energia disponibile per servire l’illuminazione pubblica della città e delle borgate vicine, l’utenza industriale e la tranvia Trento-Malé (inaugurata nell’autunno di quell’anno) per cui si rese ben presto necessaria una maggiore dotazione della centrale che nel 1913 fu portata ad una potenza installata di oltre 6.000 kW.

Nel primo dopoguerra l’impianto di Fies venne ulteriormente potenziato e integrato con la nuova centrale realizzata poco più a valle, nei pressi di Dro, dedicata al Principe Umberto di Savoia. Con la creazione delle imponenti strutture del Secondo Dopoguerra gli impianti del Sarca della città di Trento persero tuttavia la loro importanza relativa: in particolare con la costruzione della centrale di Nago-Torbole, negli anni ’60, l’attività della centrale di Fies venne notevolmente ridimensionata. Passato nel frattempo in proprietà all’ENEL, da alcuni anni l’edificio della centrale ospita incontri culturali ed è sede per spettacoli e performance artistiche.

 

La centrale Fies oggi spazio per l’arte contemporanea

Centrale Fies è un centro di produzione delle arti performative e luogo di sperimentazione e creazione di nuovi scenari culturali all’interno di un centrale idroelettrica in parte ancora funzionante, data in comodato a una cooperativa nata negli anni 80 dall’azienda illuminata di Hydro Dolomiti Enel che ha creduto in questa riconversione dell’energia alla produzione d’arte e all’accompagnamento nella nascita di nuove imprese culturali.

La particolarità dei contenuti e dei progetti nati in questi anni ha una speciale aderenza a questo edificio immerso nella natura più selvaggia del Trentino, per l’esattezza su una frana di epoca post glaciale. Ogni stanza, ogni pavimento, ogni altissimo soffitto hanno ospitato e visto nascere progetti sempre più preziosi e articolati fino al muro di ferro dell’artista Francesca Grilli esposto nel padiglione dell’ultima edizione della Biennale arte.

La centrale Fies è un luogo speciale in cui far nascere opere che poi vengono esportate e vendute sia in Italia che all’estero e sede di un festival trentennale di performing art dove si danno appuntamento importanti direttori di festival stranieri che giungono in un piccolo paese del Trentino a fine luglio per vedere cosa produce l’Italia delle arti performative. Ma non solo. Attraverso questa fervente attività, la centrale Fies si qualifica da anni come incubatore di artisti performativi e visivi che uscendo da questo luogo hanno poi varcato tutti i confini possibili sia di linguaggio che geografici attraversando i festival, i teatri, le gallerie, le biennali d’arte.

Fies Core un hub cultura all’interno della Centrale Fies

Nel 2014 all’interno di questa struttura nasce anche un hub cultura dal nome Fies Core con la mission di sostenere, guidare, accompagnare, lanciare imprese culturali innovative supportandole con attività orientate allo sviluppo e al potenziamento di nuove skill. Fies Core è un luogo dove diverse esperienze e umanità convergono per creare i contenuti culturali più eterogenei: da nuove idee di turismo, al district branding passando per free school filosofiche sulla performance. Inoltre Fies Core crea progetti transettoriali che mette a disposizione di giovani imprese che vogliano sperimentare e iniziare a muoversi nel campo del cultural design e dell’impresa culturale. A chi invece ha già le idee chiare propone un team modulare di art director, graphic designer, image maker,  più un universo parallelo di artisti, web master, fashion designer, illustratori e creativi.

Informazioni
Centrale Fies, Località Fies 1, Dro (Tn)
Tel: +39 0464.504700
www.centralefies.it info@centralefies.it

Sito archeologico industriale:Centrale idroelettrica di Fies
Settore industriale: Industria dell’energia
Luogo: località Fies, Dro, Trento, Trentino – Alto Adige
Proprietà e Gestione: Proprietà dell’immobile Hydro Dolomiti Enel – Gestione Cooperativa Il Gaviale
Testo a cura di:
Per la parte storica si ringrazia il dott. Roberto Marini dello studio associato Viriginia
opere consultate:
Renato Capraro, Edoardo Model, Gli impianti idroelettrici della Città di Trento, Trento 1924
Umberto Zanin, Il carbone bianco. L’energia elettrica nell’Alto Garda. I primi cinquant’anni: 1890/1940, Arco 1998
Acquaenergia. Storia e catalogazione delle centrali idroelettriche del Trentino, a cura di Angelo Longo e Claudio Visintainer, Trento 2008

Per la parte contemporanea si ringrazia l’Ufficio Comunicazione, immagine e relazioni esterne Centrale Fies
Crediti Fotografici: si ringrazia Roberto Marini e l’ufficio comunicazione Centrale Fies




Convegno La centrale idrotermoelettrica del Battiferro: un patrimonio da ri-scoprire

Sabato 7 giugno, presso il Liceo Augusto Righi di Bologna si è svolto il convegno “La centrale idrotermoelettrica del Battiferro. Un patrimonio da ri-scoprire”, gettando le basi per la creazione di un Comitato per la Salvaguardia della Centrale del Battiferro.

La Centrale del Battiferro, da oltre 50 anni versa in stato di abbandono potrebbe rifiorire a nuova vita grazie anche allo sforzo di un Comitato creato ad hoc no solo per sensibilizzare l’opinione pubblica, ma anche e soprattutto per promuovere la realizzazione di progetti concreti di riqualificazione del sito.

Sita lungo il canale Navile, importante are di Bologna che ha visto negli anni il fiorire di numerose attività industriale, La centrale del Battiferro lo scorso dicembre è stata messa in vendita dal comune di Bologna, insieme ad altri prestigiosi beni pubblici, con l’obiettivo di appianare il bilancio comunale.
Rischio o opportunità? Dipenderà da come si evolveranno i fatti, ma per non lasciare la questione in balia di pochi decisori, trattandosi di un bene comune di estremo interesse per la storia industriale della città, un gruppo di persone ha deciso di agire.

Il movimento nasce dalla passione di un giovane geografo di adozione bolognese specializzato sul tema dell’archeologia industriale, il dott. Jacopo Ibello, che già dalla fine dello scorso anno si è mosso per scuotere l’opinione pubblica sull’argomento, attività questa che si è concretizzata, come primo step, attraverso l’organizzazione del primo convegno ufficiale sul tema.

L’evento, organizzato dalle associazioni Save Industrial Heritage – l’associazione appunto presieduta dal dott. Ibello – e Amici delle Acque/Bologna Sotterranea, in collaborazione col Liceo Scientifico Augusto Righi (ricordiamo che proprio lo stesso Righi visitò la centrale nel 1901) che ha offerto anche i propri spazi istituzionali, è stato patrocinato dall’Archivio Storico Comunale di Bologna e dall’AIPAI (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale).

Alla convegno sono intervenuti personalità del mondo accademico, professionisti del settore nonché rappresentanti delle istituzioni pubbliche. A seguire l’elenco dei partecipanti in ordine di presenza:

• Prof. Mauro Borsarini: dirigente scolastico del Liceo Scientifico Augusto Righi.
• Prof. Mario Rinaldi: Presidente Associazione Elettrotecnica Italiana.
• Prof. Paolo Pupillo: Biologo, Docente dell’Università di Bologna e Rappresentante nazionale di Italia Nostra.
• Dott. Jacopo Ibello: Presidente dell’associazione Save Industrial Heritage.
• Massimo Brunelli: Vicepresidente dell’associazione Amici delle Acque-Bologna Sotterranea.
• Prof. Giorgio Dragoni: Docente di Storia della Fisica dell’Università di Bologna.
• Claudio Mazzanti: Consigliere comunale e Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Bologna.
• Prof. Giampiero Cuppini: Architetto.
• Moderatore: Prof. Elisabetta Golinelli, docente di Scienze del Liceo Righi.

Aperti i lavori con i saluti del prof. Borsarini, il prof. Rinaldi ha tenuto a sottolineare il forte gap che esiste tra l’Italia ed i paesi stranieri in tema di salvaguardai e promozione della cultura tecnica. Un gap che va sicuramente colmato dal quale dipende il benessere sociale ed economico del nostro paese.
Segue l’intervento del prof. Pupillo che ha raccontato alla platea come in realtà nel tempo alcuni progetti di recupero della centrale fossero stati presentati, ma nessuno di questi vide mai la sua realizzazione.
Il dott. Ibello, dopo un inciso sul forte legame che sussiste tra Bologna e la sua attività industriale e manifatturiera, e dopo aver raccontato la storia della Centrale del Battiferro, ha esposto la propria idea per il futuro del sito, ovvero: utilizzare la centrale come un luogo sociale,un luogo dedicato alla cultura attraverso la gestione dello spazio in una formula temporanea, evitando così di dare una destinazione definitiva che potrebbe fossilizzarlo o, ancora peggio, riportarlo al disuso qualora l’operazione non funzionasse.
Massimo Brunelli ha regalato una panoramica sul ruolo del canale Navile e sulle molteplici attività che sorsero lungo le sue sponde, proseguendo poi con una serie di interessanti scatti realizzati all’interno della centrale che ne dimostrano lo stato di degrado. Tali scatti, sottolinea Brunelli, risalgono però ad un anno fa circa, da allora la situazione è notevolmente peggiorata:immense quantità di rifiuti riempiono ogni angolo della centrale.
Il prof. Dragoni è entrato poi nel merito delle occasione perdute, raccontando nel dettaglio come in realtà un’ingente cifra fosse stata già stanziata su un progetto realizzato dall’Università sfruttando i finanziamenti sui fondi del gioco del lotto, soldi questi però mai arrivati. Dragoni confida in una nuova fase per la centrale, immaginando un graduale recupero della struttura di tipo minimalista – ovvero senza la necessità di onerosi e imponenti modifiche strutturali – aprendola così al pubblico e realizzandone poi un centro culturale.
Il prof Cupini ha ricordato comunque i vincoli d’uso e strutturali, oltre a quelli di tipo economico, ai quali in ogni caso chi andrà ad intervenire sul sito dovrà attenersi.
Ha chiuso l’incontro l’architetto Cuppini ricordando la potenzialità dei Fondi europei: creare occasioni di lavoro per poter accedere a questi interessanti e spesso inutilizzati finanziamenti.

Tanti quindi gli spunti su cui riflettere, ma soprattutto tante le volontà che intendono mettersi in gioco affinché la centrale del Battiferro, stimabile esempio di archeologia industriale bolognese, non vada perduta ed acquisisca invece nuovamente un ruolo importante per la cittadinanza.

Archeologiaindustriale.net era presente al convegno e continuerà a seguire la vicenda.




La Centrale Montemartini a Roma Ostiense

La ex Centrale termoelettrica Montemartini, oggi sede museale all’interno del Polo Espositivo dei Musei Capitolini, integra mirabilmente archeologia industriale e arte classica.

Inaugurata il 30 giugno del 1912, la Centrale termoelettrica Montemartini fu il primo impianto elettrico pubblico per la produzione di energia elettrica della “Azienda elettrica municipale” (oggi Acea).
Venne intitolata a Giovanni Montemartini, economista italiano e teorico più autorevole del movimento delle municipalizzazioni delle aziende di servizi ad interesse pubblico.

La costruzione della centrale, su un’area di circa 20.000 mq tra la Via Ostiense e l’ansa del Tevere, fu affidata alla ditta di costruzione in cemento armato dell’ing. H. Bollinger di Milano.

L’aspetto monumentale dell’edificio si giustifica con la volontà di manifestare l’orgoglio della municipalità nel poter provvedere da sola alla produzione di servizi per i propri cittadini. Esigenze funzionali e valore estetico si sposano perfettamente nella struttura sia esterna che interna:

Le pareti laterali lunghe erano scandite dai pilastri su cui poggiavano le capriate paraboliche che reggevano il solaio. Quest’ultimo lungo l’asse principale si interrompeva per raggiungere uno quota più alta e formare un lucernaio con finestre a nastro. Il terrazzo di copertura era formato da una doppia soletta per favorire l’isolamento termico. L’aula era stata divisa in due aree distinte a seconda della tipologia di macchinario installato.
Lo spazio del lavoro veniva poi connotato attraverso una fascia alta circa due metri in “lapis ligneus” culminante con un fregio con un motivo decorativo a festoni, fiocchi e targhe che correva lungo tutto il perimetro. Una serie di eleganti lampioni in ghisa con globi sorretti da bracci arcuati illuminava l’interno. Sulla parete est era stato sistemato un grande schermo con lo schema dell’illuminazione pubblica.

Nel 1933, fu Benito Mussolini in persona ad inaugurare i due giganteschi motori diesel da 7500 Hp Franco Tosi, lunghi entrambi 23 metri, collocati all’interno della sala macchine completamente rinnovata. Un nuovo pavimento a mosaico disegnava intorno alle macchine cornici multicolori,ancora oggi utili a visualizzare l’assetto originario.

Nel periodo fascista, la centrale venne ulteriormente potenziata con lo scopo di sostenere il consumo energetico previsto per la grande Esposizione Universale che nel 1942 il regime intendeva realizzare nella zona sud di Roma per autocelebrarsi, ma in realtà mai organizzata.

Durante i bombardamenti che colpirono la città di Roma tra il 1944-45, anche la Centrale Montemartini subì alcuni danni, ma per fortuna di poca entità. la Centrale Montemartini si fece carico da sola dell’approvvigionamento energetico dell’intera città durante la liberazione. Dopo la guerra fu ulteriormente potenziata.

Nel 1963 la produzione di energia elettrica venne interrotta a cause dell’impianto ormai obsoleto per il quale non risultava più conveniente investire ulteriori risorse.

Il recupero della ex Centrale Montemartini, esempio di archeologia industriale

Per circa 20 anni la centrale rimase abbandonata, finché l’Acea non decise di recuperare la struttura con lo scopo di realizzare uno spazio polifunzionale destinato al terziario.
Su progetto dell’ingegnere Paolo Nervi l’intervento interessò principalmente la Sala Macchine e la nuova Sala Caldaie. I lavori, iniziati nel 1989, furono realizzati nel rispetto delle forme originali, recuperando parte delle decorazioni e dei macchinari originari, tra questi la grande turbina a vapore del 1917.

Il Museo della Centrale Montemartini parte del polo espositivo dei Musei Capitolini di Roma

Nel 1997, in occasione di un ampia ristrutturazione che ha interessato i Musei Capitolini, un centinaio di sculture sono state temporaneamente trasferite all’interno della ex Centrali Montemartini ed allestite nella mostra “Le macchine e gli dei“, creando un dialogo tra archeologia classica ed archeologia industriale.

In un suggestivo gioco di contrasti accanto ai vecchi macchinari produttivi della centrale sono stati esposti capolavori della scultura antica e preziosi manufatti rinvenuti negli scavi della fine dell’Ottocento e degli anni Trenta del 1900, con la ricostruzione di grandi complessi monumentali e l’illustrazione dello sviluppo della città antica dall’età repubblicana fino alla tarda età imperiale.

L’adeguamento della sede a museo, il restauro delle macchine e la sezione didattica del settore archeo industriale sono stati realizzati dall’Acea.

Lo splendido spazio museale, inizialmente concepito come temporaneo, in occasione del rientro di una parte delle sculture in Campidoglio nel 2005, alla conclusione dei lavori di ristrutturazione, è stato confermato come sede permanente delle collezioni di più recente acquisizione dei Musei Capitolini.
Nei suoi spazi continua il lavoro di sperimentazione di nuove soluzioni espositive collegato alla ricerca scientifica sui reperti; l’accostamento di opere provenienti da uno stesso contesto consente anche di ripristinare il vincolo tra il museo e il tessuto urbano antico.

Il museo stesso è inserito all’interno di un più ampio progetto di riqualificazione della zona Ostiense Marconi, che prevede la riconversione in polo culturale dell’area di più antica industrializzazione della città di Roma (comprendente, oltre alla centrale elettrica Montemartini, il Mattatoio, il Gazometro, strutture portuali, l’ex Mira Lanza e gli ex Mercati Generali) con il definitivo assetto delle sedi universitarie di Roma Tre e la realizzazione della Città della Scienza.

I servizi museali all’interno del Museo della Centrale Montemartini, in quanto parte del Sistema dei Musei Civici di Roma Capitale, sono curati da Zetema Progetto Cultura.

Info:
Musei Capitolini – Centrale Montemartini
Via Ostiense 106 – 00154 ROMA
Informazioni e prenotazioni Tel. 060608 tutti i giorni ore 9.00-21.00
Website www.centralemontemartini.org/E-mail info.centralemontemartini@comune.roma.it

 

Sito archeologico industriale:La Centrale Montemartini
Settore industriale:Settore Energetico
Luogo: Roma – Lazio
Proprietà/gestione: Musei Civici di Roma www.museiincomuneroma.it/
Testo a cura di:Centrale Montemartini. I testi per la parte storica sono stati tratti da “la Centrale Termoelettrica Giovanni Montemartini” di Antonio David Fiore.
Image Courtesy of: Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali




La Centrale del Battiferro a Bologna è in vendita

Il Comune di Bologna mette in vendita la Centrale idrotermoelettrica del Battiferro, una delle testimonianze più importanti della storia industriale del capoluogo dell’Emilia Romagna.

La Centraledel Battiferro è situata lungo il canale Navile, che fu per secoli uno dei cuori pulsanti dell’attività produttiva in città: l’area dove si trova, il Battiferro, deriva il nome dalla presenza nel passato di opifici legati alle lavorazioni metallurgiche. Si tratta di una zona che potremmo definire “strategica” dal punto di vista dell’archeologia industriale: nelle immediate vicinanze della centrale si trovano, infatti, il principale sostegno (così si chiamano le chiuse) del canale, la Fornace Galotti che ospita il Museo del Patrimonio Industriale e i resti di un’antica cartiera.

Storia della Centrale del Battiferro, esempio di archeologia industriale

La Centrale del Battiferro venne costruita per iniziativa della Ganz, la rinomata industria di Budapest produttrice di materiale elettrico, tra il 1898 e il 1900: venne dotata di 2 coppie di caldaie a vapore e di una turbina che sfruttava un salto di 3 metri del vicino canale Navile; questi macchinari azionavano 3 alternatori Ganz da 400 kW ciascuno. La turbina idraulica venne realizzata dalla Escher Wyss di Zurigo, mentre le caldaie furono prodotte dalla rinomata ditta tedesca Steinmüller; italiani erano i condensatori e le macchine motrici, fabbricati dalla Franco Tosi di Legnano. Si trattava quindi di una centrale che produceva energia sia termo che idroelettrica. La distribuzione dell’elettricità venne affidata a una società cooperativa fondata da Giuseppe Galotti, industriale attivo nei laterizi e proprietario della vicina fornace. Si trattava di una struttura all’avanguardia per l’epoca, che andava a sostituire l’unico l’impianto idroelettrico della città, collocato presso il Molino Poggioli.
La centrale del Battiferro fu la seconda grande “fabbrica” di energia di Bologna, dopo le Officine del Gas, costruite nel 1862 e divenute nel 1900 di proprietà del Comune (la prima azienda municipalizzata del gas nella storia d’Italia). L’elevato livello tecnologico della centrale venne attestato dalla visita che vi condussero nel 1901 i fisici italiani, riuniti a Bologna per il loro V congresso nazionale, alla presenza di Augusto Righi.
Con la costruzione dei laghi artificiali appenninici durante la prima metà del XX secolo, destinati alla produzione di energia idroelettrica, la piccola centrale del Battiferro perse pian piano importanza fino alla sua definitiva chiusura nel 1961.
In oltre 50 anni di abbandono, questo monumento della archeologia industriale ha subito danni molto gravi a causa delle intemperie, dell’usura del tempo e dei vandali. Chi ci è stato dentro negli ultimi tempi racconta che il pavimento è sparito sotto uno spesso strato di sporco e rifiuti, mentre all’interno dei locali vi trovano alloggio senzatetto e attività criminali legate al confezionamento e allo spaccio di stupefacenti. Nonostante tutto questo, sopravvivono ancora alcuni macchinari come un paio di turbine.

Il Comune di Bologna mette in vendita la Centrale del Battiferro

L’11 dicembre il Comune di Bologna ha comunicato la propria volontà di mettere in vendita alcuni dei gioielli del suo patrimonio per ripianare lo stato di crisi del bilancio municipale. Spicca nella lista il nome di Villa Aldini, fatta costruire nel 1811-16 per ospitare Napoleone; ma tra i beni in vendita c’è anche la centrale del Battiferro. Questo avvenimento può essere visto come un’opportunità per chi ha a cuore non solo l’archeologia industriale, ma tutto il patrimonio culturale bolognese. Dopo decenni di incuria, infatti, questo edificio potrebbe essere recuperato e rilanciato.

“Salviamo la Centrale del Battiferro” il nuovo gruppo su Facebook

Per sensibilizzare sulle potenzialità di questa struttura è stato recentemente lanciato il gruppo Facebook Salviamo la Centrale del Battiferro che si propone di creare un gruppo di opinione impegnato sulla rete e sul campo nel creare un progetto di recupero realizzabile e sostenibile. C’è bisogno, oltre che del sostegno della comune cittadinanza, di professionisti ed esperti in vari campi, dalla storia all’architettura, al restauro, alla tecnica, alla cultura, alla progettazione e al fund raising. Tutte queste figure sono necessarie per elaborare un progetto di salvataggio che sia di alto spessore culturale ma allo stesso tempo sostenibile dal punto di vista economico.

Archeologiaindustriale.net invita tutti gli interessati ad aderire al gruppo “Salviamo la Centrale del Battiferro” ed a lasciare il proprio contributo intellettuale affinché la Centrale del Battiferro, qualunque sia la nuova destinazione d’uso, non perda di identità e possa raccontare la propria storia  alle generazioni future.

Il gruppo Facebook “Salviamo la Centrale del Battiferro” è stato lanciato da Jacopo Ibello. Jacopo Ibello, autore del testo di cui sopra, è laureato in Geografia presso l’Università di Bologna. Dopo la laurea  ha conseguito il diploma di Master in Conservazione e Gestione del Patrimonio Industriale presso l’Università di Padova.

Hashtag di riferimento #saveindustrialheritage

Hanno parlato della Centrale del Battiferro:

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Sito archeologico industriale: La Centrale del Battiferro
Settore industriale: Settore Energia
Luogo: Bologna- Emilia Romagna
Proprietà/gestione: Comune di Bologna www.comune.bologna.it
Testo a cura di: Jacopo Ibello contatto: jacopo.ibello@gmail.com.
Crediti Fotografici: si ringrazia Massimo Brunelli – Vicepresidente, nonché ricercatore e fotografo, della “Associazione amici delle vie d’acqua e dei sotterranei di Bologna” www.amicidelleacque.org