D17. Fotografie Da Re – Archivio Fondazione Dalmine

TenarisDalmine presenta la mostra D17. Fotografie Da Re dall’archivio della Fondazione Dalmine.

L’esposizione, curata dalla Fondazione Dalmine, si terrà dal 28 febbraio al 22 marzo nei prestigiosi spazi delle Scuderie della Villa Borromeo d’Adda, in collaborazione con il Comune di Arcore, Assessorato alla Cultura.

La Fondazione Dalmine è attiva dal 1999 nella diffusione della cultura industriale e nella valorizzazione del ricco archivio storico di TenarisDalmine, che conserva fra l’altro oltre 35.000 immagini relative a impianti, processi, prodotti, persone, attività, spazi industriali. Questo patrimonio visivo risale al 1906 – anno di fondazione dello stabilimento di Dalmine, il più antico di Tenaris – includendo via via documenti e foto storiche su altri siti produttivi che nel corso del tempo sono entrati a far parte di TenarisDalmine.

La mostra D17. Fotografie Da Re dall’archivio della Fondazione Dalmine propone una selezione di immagini storiche realizzate tra gli anni ’30 e gli anni ’70 dallo studio bergamasco dei fotografi Da Re, che per oltre mezzo secolo ha collaborato strettamente con l’impresa. D17 è infatti la sigla in codice con cui lo studio identificava le fotografie realizzate per conto dell’azienda nell’epoca in cui era denominata Dalmine (da cui la lettera D): foto di siti produttivi, realizzazioni, prodotti che raccontano, con l’efficacia di un linguaggio universale, una storia dalle radici molto lontane.

Le immagini presentate nella mostra offrono al pubblico alcuni percorsi che non raccontano una storia lineare nel tempo, ma al contrario propongono un gioco di rimandi visivi e di letture inedite, che vanno al di là del contenuto storico e informativo specifico. Sebbene relativi al sito di Dalmine e a un limitato periodo della ben più lunga vicenda aziendale gli scatti esposti in D17 sono in primo luogo un omaggio agli autori, al loro “lavoro” di fotografi. Ma sono anche un esempio dell’efficacia, ricchezza e forza espressiva della fotografia come linguaggio ideale per rappresentare il mondo dell’industria e del lavoro. Queste immagini storiche sono uno spaccato singolare di una cultura, quella industriale, che Sandro e Umberto Da Re hanno saputo interpretare seguendo le esigenze della committenza senza rinunciare allo stile e alla qualità formale di autori.
La mostra è corredata da video, oggetti storici, apparati informativi sulla storia dello Studio Da Re e sulla storia dell’azienda. Anche per questo motivo, è proposta alle scuole primarie e secondarie del Comune di Arcore nell’ambito di un programma di visite guidate curato e gestito dal team didattico della Fondazione Dalmine (www.3-19.org). Sono inoltre previste visite per gruppi, su prenotazione (www.fondazionedalmine.org).

D17. Fotografie Da Re dall’archivio della Fondazione Dalmine, in questa tappa espressamente dedicata ad Arcore, è alla sua terza edizione, dopo il debutto alla GAMeC di Bergamo nel 2012 e l’allestimento al Museo Nazionale di Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano nel 2013, entrambi curati da Giacinto Di Pietrantonio e Maria Cristina Rodeschini. Con questa edizione nella prestigiosa sede delle scuderie di Villa Borromeo, la Fondazione Dalmine prosegue un filone di attività culturali dedicate alla fotografia e al rapporto che, nel corso di oltre cento anni di storia, ha legato l’azienda TenarisDalmine all’operato di importanti fotografi, confermando anche il proprio impegno nella promozione della cultura industriale non solo attraverso la conservazione degli archivi aziendale, ma anche attraverso la divulgazione al pubblico di temi legati alla storia come elemento per comprendere la contemporaneità.

Fondazione DalmineComune di Arcore

Informazioni

D17. Fotografie Da Re dall’archivio della Fondazione Dalmine
28 febbraio – 22 marzo 2015
Scuderie del parco della Villa Borromeo D’Adda, Arcore
Inaugurazione sabato 28 febbraio, ore 17.00

Orari
sabato e domenica: 15.00 | 18.00
feriali: su prenotazione scuole e gruppi
ingresso gratuito

Fondazione Dalmine
Manuel Tonolini
T +39 035 5603418 / C +39 3299016366
segreteria@fondazionedalmine.org
www.fondazione.dalmine.it

Comune di Arcore
T +39 039 616158
bibarcore@sbv.mi.it
comune.arcore.mb.it




Metanopoli, la città sostenibile di Mattei

A San Donato Milanese, alle porte di Milano, sorge Metanopoli, la città del metano voluta da Enrico Mattei per i lavoratori di eni.


Concepita secondo criteri urbanistici d’avanguardia, in linea con la filosofia del villaggio aziendale che mirava a integrare in un’unica realtà operai, impiegati e dirigenti dell’azienda di Stato, Metanopoli ha mantenuto nel tempo il suo aspetto originale, con case basse circondate da giardini e viali alberati.

L’idea di costruire un centro organizzativo e amministrativo nei pressi di San Donato nasce nel 1952, agli albori della costituzione di eni, con una funzione ben precisa: dar vita al più ordinato, razionale e verde hinterland di Milano. L’insediamento si inserisce nel tessuto urbanistico della cittadina come fondazione ex novo, in un’area in cui non esisteva fino a quel momento alcun impianto produttivo. Fortemente voluto da Mattei, il “quartier generale” eni – denominato Metanopoli – diviene ben presto un polo di eccellenza e di innovazione destinato a far ripartire, dopo anni di depressione, la grande industria del Nord.

Il progetto urbanistico, affidato all’architetto Mario Bacciocchi, prevedeva la collocazione del complesso in una zona di transito vicina alle grandi reti di trasporto dell’epoca: l’aeroporto di Linate, la storica Via Emilia, che collegava il centro di Milano con le città emiliane e il Sud, l’Autostrada del Sole. In brevissimo tempo il quartiere si trasforma in una vera e propria “città del terziario” dove si concentrano uffici, laboratori, centri di formazione, quartieri residenziali.

I laboratori, realizzati da Bacciocchi, diventano un fiore all’occhiello della ricerca scientifica in Italia. Qui chimici, fisici, ingegneri, biologi, scelti tra i più giovani delle università italiane, lavorano a stretto contatto, inaugurando un nuovo metodo di ricerca di tipo interdisciplinare. All’eccellenza guarda anche la Scuola superiore di studi sugli idrocarburi istituita a San Donato nel 1955 per la formazione dei quadri e dei dirigenti italiani e stranieri, nella quale insegnano i migliori docenti internazionali nel campo dell’economia, del management e della ricerca energetica.

Allo spazio esterno del centro, l’ambiente pubblico destinato a residenti, ospiti e addetti ai lavori, si unisce lo spazio interno, che comprende un’area residenziale, un centro sportivo, una scuola, una chiesa parrocchiale e un centro commerciale. A ridosso di Viale Alcide De Gasperi, Bacciocchi realizza nel 1955 l’unica vera piazza di Metanopoli, dominata dal complesso parrocchiale di Santa Barbara. All’interno e all’esterno della chiesa sono collocate opere di Arnaldo e Giò Pomodoro, Cassinari e Cascella.

Bacciocchi realizza anche una parte del complesso sportivo (il campo di calcio, la tribuna e il campo da tennis coperto) mentre la piscina coperta viene attribuita a Bacigalupo e Ratti e la piscina scoperta a Zoppini e Mattioni.

Lontana dall’idea di “città-fabbrica”, Metanopoli per Mattei doveva rappresentare una realtà urbana, viva e in movimento, concepita secondo criteri di sostenibilità ambientale ed efficienza, sul modello delle grandi città industriali statunitensi.

Nello stesso anno, il 1955, viene realizzato il Primo palazzo uffici, denominato progettato da Marcello Nizzoli e Gianmario Oliveri, a forma esagonale. Sulla sommità dell’edificio Piero Porcinai progetta anche un giardino pensile sul quale si affacciava, all’epoca, l’appartamento di Mattei.Il Secondo Palazzo Uffici, realizzato nel 1962 dagli architetti Marco Bacigalupo e Ugo Ratti, è caratterizzato da una pianta stellare a tre bracci.

In tempi più recenti, nel 1973, viene realizzato il Terzo palazzo uffici, nuova sede della Snamprogetti, un edificio alto 17 metri con bande rosso scuro dei rivestimenti esterni. In un’area verde adiacente al Terzo palazzo nasce poi, nel 1984, il Quarto palazzo Uffici, nuova sede della società Saipem, caratterizzato da una facciata continua, austera ed omogenea. Al piano terreno dell’edificio nell’ingresso è collocata una scultura di Arnaldo Pomodoro.

Infine, il Quinto palazzo uffici di eni, è stato inaugurato il 7 dicembre 1991. L’edificio, progettato dagli architetti Roberto Gabetti e Aimaro Isola, fronteggia i primi due Palazzi Uffici formando un ideale ingresso tecnologico alla città di Milano, tutto in cristallo verde azzurro.

La caratteristica che ancora oggi colpisce il visitatore di San Donato è la geometria essenziale del sistema viario, che integra in uno stesso spazio le zone destinate agli uffici e quelle riservate alle abitazioni. Una concezione che deriva dall’attenzione al benessere dei dipendenti sempre sostenuta da Mattei, che anticipa di una cinquantina d’anni il concetto di “welfare aziendale”. Proprio sui valori della coerenza e dell’integrazione Mattei fonderà molte delle sue scelte successive: dal salvataggio del Pignone a Firenze, agli investimenti nel settore della gomma sintetica e delle materie plastiche, alla creazione di società miste con i paesi produttori per il petrolio. Nella logica del fondatore di eni “tutto si tiene”, in nome del progresso ancora prima che dell’utile.

Sito archeologico industriale: Metanopoli
Settore industriale: Industria energetica
Luogo: San Donato Milanese, Milano, Lombardia, Italia
Proprietà e Gestione: Eni www.eni.com
Testo a cura di:Archivio storico eni
Crediti fotografici:Archivio storico eni




Paraboloidi. Un patrimonio dimenticato dell’architettura moderna

“Paraboloidi. Un patrimonio dimenticato dell’architettura moderna”, il volume realizzato da Marcello Modica e Francesca Santarella ed edito da Edifir illustra un fenomeno architettonico ancora in gran parte sconosciuto in Italia.

 

I paraboloidi, infatti, nonostante le loro origini ed evoluzione nel corso del Novecento abbiano interessato in modo significativo proprio questo paese, sono delle strutture la cui conoscenza è ancora poco diffusa. Trattasi dei magazzini industriali a copertura parabolica (comunemente detti paraboloidi, sebbene il termine non sia propriamente esatto): maestose volte nervate in cemento armato, unione perfetta tra funzionalità ed estetica, che hanno conquistato una posizione di tutto rispetto nell’architettura industriale legata al Movimento Moderno ed alla produzione seriale – tanto da essere successivamente “esportati” in numerosi paesi europei.

L’obiettivo di questo libro è di fare luce, per la prima volta in Italia, su un patrimonio storico, architettonico e culturale di valore inestimabile che, per la sua natura “industriale”, è costantemente a rischio di estinzione.

I 91 paraboloidi in Italia

Al centro della ricerca vi è un’articolata cronologia che descrive la storia di ognuno dei 91 esemplari realizzati sul territorio italiano tra il 1920 e il 1970 (presenti in tutte le regioni ad esclusione della Valle d’Aosta, Lazio, Molise e Basilicata), con un ricco ed inedito corredo di fotografie d’epoca e attuali, disegni, planimetrie originali, e un cenno ai recuperi effettuati e ai magazzini presenti in territorio europeo.

Tra i numerosi esemplari esistenti alcuni emergono per caratteristiche architettoniche, innovazioni costruttive e dimensioni. In ordine cronologico: il magazzino clinker dello stabilimento Italcementi di Casale Monferrato, primo esemplare di silos parabolico mai realizzato (1922-23); il silos perfosfato della Montecatini di Romano di Lombardia (1924-25); il vasto magazzino fertilizzanti azotati dello stabilimento chimico di Nera Montoro (1929-35); l’insieme dei magazzini del sale progettati da Pier Luigi Nervi, tra cui spiccano gli esemplari di Margherita di Savoia (1933-35), Tortona (1950-51) e Bologna (1954); i “paraboloidi della ricostruzione” della Montecatini presso Crotone (1946-47), Assisi (1948) e Castelfiorentino (1948), poi Legnago (1954-55) quale primo esemplare di paraboloide “tipo Montecatini” – ispirato ai progetti dell’ing. Giulio Borrelli – e Porto Recanati (1955), primo silos parabolico a testata “aperta”; tra le fabbriche consorziali del Nord Italia: Portogruaro (1949, presso la Fabbrica Perfosfati), Mantova (1952, presso la Fabbrica Mantovana Concimi Chimici), Cerea (1953-54, presso la Fabbrica Cooperativa Perfosfati), Piacenza (1954, presso il Consorzio Agrario) e Ravenna (1956-57, presso la Società Interconsorziale Romagnola); il magazzino per solfato ammonico presso lo stabilimento SNIA di Torviscosa (1961); i grandi paraboloidi a copertura continua costruiti dalla Montecatini-Edison a Porto Marghera, in particolare quelli dello stabilimento Fertilizzanti Complessi (1962-67) e del nuovo Petrolchimico (1970-71); i nove paraboloidi gemelli a copertura continua costruiti dalla Edison nel petrolchimico Sincat di Priolo (1956-60); i magazzini per fertilizzanti azotati dell’ANIC di Ravenna (1961-62) e relative riproduzioni di Gela (1962-63) e Manfredonia (1969-70); gli ultimi, enormi silos parabolici costruiti dalla Montedison presso Cirò Marina (1970) e Ferrara (1977).

Tra i pochi edifici recuperati si annoverano i due paraboloidi di Cerea (trasformati in centro congressi nei primi anni Duemila), quelli ex Montecatini di Assisi (recuperati in più fasi tra il 1999 e il 2008, oggi sede di un teatro, spazi espositivi e culturali) e il piccolo pseudo-paraboloide della Cimatoria Campolmi di Prato (interamente restaurato e dal 2009 sede della Biblioteca della città). Notevole anche il recupero a fini di pubblica utilità del paraboloide “Embarcadero” di Caceres, in Spagna, avvenuto nel periodo 2000-2006.

I due paraboloidi della Montecatini di Assisi

I due paraboloidi della Montecatini di Assisi. Il caso di Assisi è tra i più interessanti nel panorama italiano dei paraboloidi, essendo tra l’altro uno dei pochi che ha visto il restauro integrale degli edifici ex industriali. In occasione della ricostruzione post-bellica dello stabilimento di Assisi-Santa Maria degli Angeli la società Montecatini decide di attrezzare la rinnovata fabbrica di perfosfato minerale con un grande silos parabolico con chiave ribassata (intendendo con questa definizione i silos che presentano nastro trasportatore posto in una struttura in c.a. sottostante la chiave di volta) ed estradossi a vista, completato nel 1948 e costituito da due sezioni rispettivamente di 11 e 8 archi parabolici in cemento armato e stazione automatizzata di insacco mediana. Un secondo paraboloide, di dimensioni più ridotte, viene aggiunto poi tra il 1955 e il 1956. La fabbrica di perfosfato cessa l’attività negli anni Settanta e, successivamente, viene acquisita dall’Amministrazione Comunale. Negli anni Novanta si concretizza l’interesse verso il primo dei due silos parabolici. La porzione dell’edificio a nord è riutilizzata a fini ricreativi e ludico sportivi (palestra boxe, bocciofila, bar, piscina), la porzione a sud viene sottoposta ad un recupero conservativo ad opera degli ingg. Roberto Radicchia e Marco Mezzi, per ospitare poi la sede del Teatro Lyrick (inaugurato nel 2000). A distanza di qualche anno anche il secondo paraboloide, in condizioni di grave degrado come il primo, subisce un pregevole restauro (ingg. Giuseppe e Giacomo Ferroni) e si trasforma in spazio polifunzionale per eventi e congressi. In corso la rifunzionalizzazione della torretta centrale del “Morandi”, destinata ad ospitare un museo della boxe ed altre funzioni connesse.

Ai padiglioni di Assisi è dedicata una delle pochissime pubblicazioni italiane riguardanti i silos parabolici, ovvero La ricerca dell’arco perfetto. Da Morandi a Nervi, in ≪Bollettino per i Beni Culturali dell’Umbria≫, III, n. 4, Quaderno 1, 2010.

A proposito dell’origine dei due edifici. I due edifici vengono tradizionalmente fatti risalire a Riccardo Morandi (il più antico) e Pier Luigi Nervi (il secondo), anche se in realtà tali progetti non figurano negli elenchi ufficiali delle opere di costoro. Molto più probabile il coinvolgimento di ingegneri e tecnici interni alla società Montecatini, vista la somiglianza tipologica del primo paraboloide con un altro realizzato precedentemente (1940) dalla stessa società presso lo stabilimento chimico di Crotone. Il cosiddetto “Morandi” presenta caratteristiche di assoluta originalità, come la pensilina costituita da una successione di volte a botte sormontate da aperture a lunetta che si aprono nella volta monolitica in cemento armato. Il “Nervi”presenta invece grandi somiglianze con l’analogo denominato “Nervi”, ex Montecatini, esistente a Porto Recanati.

Gli autori

Marcello Modica, urbanista e fotografo, si occupa da diversi anni di archeologia industriale sul territorio italiano ed europeo. Ha partecipato come guest lecturer a numerose conferenze sul tema (Università degli Studi di Genova, Università Cattolica di Milano, 13° Biennale di Architettura di Venezia, NovarArchitettura) e collabora stabilmente con riviste scientifiche (Urbanistica, Patrimonio Industriale, Industriekultur, Llàmpara Patrimonio Industrial).

Francesca Santarella, studiosa di archeologia industriale, è consigliere comunale a Ravenna dal 2011. Di sua iniziativa la campagna di sensibilizzazione pubblica per la salvaguardia del paraboloide ex SIR.

Titolo: Paraboloidi. Un patrimonio dimenticato dell’architettura moderna
Autore: Marcello Modica, Francesca Santarella – prefazione di Alberto Giorgio Cassani
Casa Editrice: Edifir www.edifir.it
ISBN:978-88-7970-705-3
Lingua:Italiano




La Fondazione Fiera Milano e il suo Archivio Storico

L’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano nasce dalla volontà dell’omonima Fondazione di divulgare la storia dell’Ente Autonomo Fiera Internazionale di Milano riportando le testimonianze di un’impresa che tanti ricordi ha lasciato nella memoria di milioni di visitatori.

«Ci rivedremo quest’altr’anno alla Fiera», dicevano i commercianti del mio paese, e non aggiungevano «di Milano» perché sarebbe stato un pleonasmo. (V. Cardarelli)

Storia e sede dell’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano

Il 1 febbraio 2005, l’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano è stato riconosciuto di notevole interesse storico dalla Soprintendenza Archivistica per la Lombardia.

Il 2005 è stato un anno di grande importanza per la storia della Fiera di Milano e non solo, proprio dieci anni fa veniva infatti inaugurato il polo fieristico a Rho-Pero (provincia di Milano). La Fiera lasciava quindi il suo storico quartiere, la vecchia piazza D’Armi di Milano, che la aveva ospitata dal 1923, per un nuovo e più efficiente sito. Tanti anni di attività sono testimoniati dall’Archivio Storico che, insieme agli uffici di Fondazione Fiera Milano, è invece rimasto nel quartiere fieristico cittadino. L’archivio ha infatti la propria sede operativa nell’area adiacente Largo Domodossola 1, in una delle palazzine liberty dette “Palazzine degli Orafi” perché, fin dall’esposizione del 1923, ospitavano la sezione orafa della Fiera Campionaria.

La struttura originale delle palazzine, protette dalla Sovrintendenza ai beni artistici e architettonici come patrimonio storico, è rappresentata da un corpo centrale arcuato che è stato interamente riportato alla luce e riorganizzato nella distribuzione degli spazi, affiancato da due ali rettilinee. Recentemente sul retro è stata realizzata una struttura in vetro, visibile già dall’esterno, che dona trasparenza e leggerezza all’edificio originale senza alterarne la peculiarità, e ospita uffici operativi e un salone di rappresentanza. È stata inoltre recuperata anche l’area circostante e quella di accesso, secondo un nuovo asse prospettico che enfatizza la facciata storica degli edifici, con una piazza ritmata da aiuole e viottoli.

L’attività dell’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano

Con l’Archivio Storico, Fondazione Fiera Milano intende porsi ulteriormente come momento di riflessione e ricerca storica, complementare alle ricerche economico-territoriali, al fine di testimoniare la cultura d’impresa, narrata attraverso le immagini, i documenti, gli oggetti e il vissuto dei protagonisti che hanno caratterizzato la storia economica italiana. In quest’ottica l’Archivio Storico tutela, valorizza e mette a disposizione degli utenti, siano essi professionisti o semplici interessati, oltre 90 anni di cultura d’impresa; organizza mostre temporanee, workshop, attività di ricerca e pubblicazioni; propone visite guidate per privati ed esperti del settore; organizza mostre proprie e partecipa a iniziative di terzi con documenti originali o in riprodotti.

La collezione dell’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano

L’Archivio è diviso sostanzialmente in cinque sezioni (documenti cartacei, iconografia, filmati e registrazioni audio, oggettistica, museale) e come detto delinea oltre 90 anni di cultura di impresa.

L’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano condensa numeri importanti: oltre 500 metri lineari di documentazione (presidenza, segreteria generale, amministrazione, commerciale, personale), più di 200.000 fotografie (positivi, negativi su lastra di vetro, negativi su pellicola, fotocolor), 2.000 cataloghi di fiere, 100 manifesti, 350 video.

L’Archivio dispone di postazioni dove il visitatore può consultare i vari documenti, anche in versione elettronica, presenti nelle collezioni della Fondazione.

La Fondazione Fiera Milano e le sue partnership

Fondazione Fiera Milano ha inoltre aderito, attraverso il suo archivio, a Museimpresa – Associazione Italiana Archivi e Musei d’Impresa, che promuove e mette in rete le imprese che hanno scelto di privilegiare la cultura nelle proprie strategie di comunicazione, come strumento di sviluppo economico e valore aggiunto per l’azienda.

Fondazione Fiera Milano è poi partner del Portale archivi d’impresa, l’area tematica dedicata agli archivi d’impresa all’interno del Sistema Archivistico Nazionale (SAN), che è stata ideata e promossa dalla Direzione Generale per gli Archivi (DGA), con l’obiettivo di salvaguardare gli archivi storici delle imprese pubbliche e private italiane. Il Portale consente di accedere a un’ampia gamma di fonti archivistiche – più di mille archivi d’impresa – e a fonti bibliografiche. Non solo, Fondazione Fiera Milano, dando seguito al dialogo con la Direzione generale per gli Archivi, partecipa anche al Portale degli archivi della Moda nel Novecento dove ha prodotto una scheda tematica sul ruolo della Fiera di Milano quale motore per la promozione della moda italiana.

Inoltre, Fondazione Fiera Milano grazie al proprio rilevante fondo fotografico, è fra i promotori della Rete per la Valorizzazione della Fotografia, uno spazio di confronto e aggiornamento tra realtà che operano nel settore della fotografia.

Sito archeologico industriale: Fondazione Fiera Milano – Archivio Storico
Settore industriale: Fiera
Luogo: Milano, Lombardia, Italia
Proprietà e Gestione: Fondazione Fiera Milano www.fondazionefieramilano.it
Testo a cura di: Archivio Storico Fondazione Fiera Milano




Emil Otto Hoppé: Il Segreto svelato. Fotografie industriali, 1912-1937 al MAST di Bologna

Il MAST di Bologna, dal 21 gennaio al 3 maggio, presenta in anteprima mondiale la mostra fotografica di Emil Otto Hoppé, uno dei più importanti fotografi dell’epoca moderna, “Il Segreto svelato. Fotografie industriali, 1912-1937”.

 

La mostra, curata da Urs Stahel, presenta 200 scatti realizzati  nelle realtà industriali di vari paesi del mondo riportando all’attenzione del pubblico l’opera del fotografo che per lungo tempo è rimasta nascosta in un archivio fotografico londinese a cui lo stesso Hoppé aveva venduto, al termine della sua lunga e prestigiosa carriera, cinquant’anni del suo lavoro.

Emil Otto Hoppé (1878-1972) fu uno dei più importanti fotografi dell’era moderna, il cui successo artistico rivaleggiava con  quello dei suoi coetanei: Alfred Stieglitz (1864-1946), Edward Steichen (1879-1973) e Walker Evans (1903-1975).
Hoppé è stato uno dei più rinomati fotografi ritrattisti del suo tempo, così come un brillante fotografo di paesaggi e viaggi. I suoi ritratti sorprendentemente modernisti colgono l’essenza di personaggi importanti delle arti, della letteratura e della politica in Gran Bretagna e negli Stati Uniti tra le due guerre. Tra le centinaia di figure ben note ha fotografato George Bernard Shaw, HG Wells, AA Milne, T.S. Eliot, Ezra Pound, G.K. Chesterton, Leon Bakst, Vaslav Nijinsky e ballerini dei Ballets Russes, e la regina Mary, Re Giorgio, e altri membri della famiglia reale.

Per ulteriori informazioni visita il sito ufficiale del MAST




L’ex Lanificio di Stia oggi Museo dell’Arte della Lana in Toscana

Il Lanificio di Stia in provincia di Arezzo fu, fino al secondo dopoguerra, uno dei principali lanifici italiani. Dal 2010, grazie all’opera della Fondazione Luigi e Simonetta Lombard che ne è proprietaria, ha ripreso vita come Museo dell’Arte della Lana.

La storia del Lanificio di Stia

La prima Società di Lanificio di Stia fu costituita nel 1852, quando già da alcuni decenni si era sviluppata una moderna attività imprenditoriale organizzata in modo tale da concentrare in un unico stabilimento le varie fasi della lavorazione della lana. Nei primi anni ‘60 dell’Ottocento il Lanificio di Stia occupava circa 140 operai e si ricorda come il primo in Toscana ad impiegare macchinari importati dall’estero. Tra il 1862 e il 1888, sotto la direzione di Adamo Ricci, fu completata la meccanizzazione di tutto il processo produttivo e razionalizzato il complesso degli stabilimenti.

Dalla fine dell’Ottocento la famiglia Lombard divenne proprietaria del Lanificio di Stia e ne affidò la direzione al veneto Giovanni Sartori, che riammodernò la fabbrica, portandola ai livelli dei più importanti lanifici italiani e si adoperò per creare una concreta copertura previdenziale a tutti i lavoratori in difficoltà. Con la direzione di Sartori il Lanificio di Stia giunse all’apice del suo prestigio, come dimostra il fatto di essere fornitore ufficiale di Casa Savoia, e al più alto livello di occupazione. Alla fine del primo conflitto mondiale gli operai impiegati erano 500, i telai circa 136 e la produzione era di oltre 700.000 metri di stoffa. In seguito alla crisi iniziata negli anni Sessanta il Lanificio di Stia fallì nel 1985 e chiuse definitivamente nel 2000.

Simonetta Lombard, erede della famiglia proprietaria per oltre sessanta anni della Fabbrica, ne riacquisì gli edifici costituendo una Fondazione che elaborò un progetto di ristrutturazione per la realizzazione di un centro di diffusione della cultura tessile. Tale progetto si concretizzò nel 2010 con l’apertura del Museo dell’Arte della Lana.

Il restauro degli edifici dell’ex Lanificio di Stia

Il complesso del Lanificio di Stia aveva una notevole rilevanza architettonica e disponeva di una superficie utile di circa 23.000 m2; era composto da vari edifici costruiti tra il XVIII e il XX secolo. Dopo anni di abbandono molti tetti e porzioni di edifici erano crollati, infiltrazioni d’acqua danneggiavano i muri, tonnellate di materiale di scarico era accatastato e marciva dentro e fuori gli edifici creando dissesti, la vegetazione aveva invaso ampie porzioni dello stabilimento, entrando all’interno e distruggendo anche le finiture. Malgrado ciò nel 2007 gli edifici furono posti sotto tutela diretta della Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici della Provincia di Arezzo.

Gli edifici principali hanno una struttura perimetrale in muratura di pietrame, decorata con archi in mattoni a vista; all’interno, per avere la massima fruibilità degli spazi, la struttura è realizzata con pilastri in ghisa, travi di ferro e volticciole in mattoni. L’obiettivo dell’intervento architettonico è stato quello di recuperare le principali costruzioni, conservandone la realtà di edifici industriali dismessi. Per quanto possibile, le strutture murarie e le finiture sono state conservate come ci sono pervenute; è stata effettuata prevalentemente un’opera di pulitura e manutenzione, anche se sono state rifatte le coperture crollate e sono stati realizzati dei nuovi impianti e servizi. Gli intonaci originari sono stati mantenuti e le lacune di quelli esterni, decorati con finto bugnato, sono state riprese con intonaco grezzo. Anche i pavimenti originari in cemento sono stati puliti e conservati come le “buche” che erano state realizzate per la manutenzione degli assortimenti di cardatura.

Il Museo dell’Arte della Lana

Il percorso espositivo è un cammino nella storia dell’arte della lana dai primordi della civiltà umana fino alla rivoluzione industriale e all’età d’oro del Lanificio di Stia. Visitare il Museo è una vera e propria esperienza sensoriale, dove si può toccare, annusare, ascoltare, imparare, provando in prima persona la manualità di alcuni gesti propri dell’arte della lana: i visitatori possono ancora riconoscere all’interno delle sale, che ospitavano in passato i cicli produttivi delle lavorazioni tessili, l’odore degli oli per la lubrificazione della lana per la cardatura, quelli intensi dei filati e dei tessuti appena tinti, o quelli metallici e acuti dei macchinari tessili, e con un po’ d’immaginazione si può riuscire anche a percepire le essenze del lavoro e della fatica che sono ancora attaccate alle pareti. Per far riascoltare ai visitatori gli assordanti rumori che rimbombavano negli stanzoni durante le lavorazioni sono stati creati dei percorsi sonori che ridanno voce ai vari macchinari. Anche il tatto è fondamentale per comprendere pienamente le lavorazioni tessili e le qualità di una stoffa. In collaborazione con l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti sono stati realizzati dei percorsi tattili utilissimi per tutti i visitatori.

Tutte le proposte didattiche del museo sono improntate alla sperimentazione per meglio comprendere le fasi di lavorazione della lana: nell’aula didattica sono eseguiti, con l’aiuto di alcuni strumenti, i procedimenti che trasformano il vello della pecora in tessuto.

Museo dell’Arte della Lana ex Lanificio di Stia
Via G. Sartori 2 – 5201 Pratovecchio Stia (Ar)
info@museodellartedellalana.it

Sito archeologico industriale: ex Lanificio di Stia oggi Museo dell’Arte della Lana
Settore industriale: Industria Tessile
Luogo: Stia, Arezzo, Toscana, Italia
Proprietà e Gestione: Fondazione Lombard www.museodellartedellalana.it
Testo a cura di: direttore del Museo dell’Arte della Lana dott. Andrea Gori. Per la parte relativa al restauro degli edifici: Prof. Arch. Carlo Blasi, Arch. Francesca Blasi, Ing. Susanna Carfagni




Aziende storiche operative e silenti. Cambiamento, Evoluzione, Strategia e Rinascita

Il libro “Aziende storiche operative e silenti” di Emanuele Sacerdote edito da Franco Angeli ci racconta delle imprese che hanno segnato la storia del nostro paese e di come queste possono essere rinnovate o rivitalizzate.

Continuità e cambiamento. Due parole chiave apparentemente contrapposte e inconciliabili, ma dal cui equilibrio e dalla cui dosata armonia ho imparato che dipende la possibilità per un’azienda familiare di coltivare la propria longevità attraverso contesti economici diversi, sapendo interpretare aree competitive spesso sconosciute e soprattutto coniugando stili di governo diversi da parte di generazioni che intrecciano le loro storie individuali, le loro aspirazioni, attitudini, ambizioni”.
Queste le parole di Patrizia Misciattelli delle Ripe, Presidente dell’Associazione Italiana Family Office, autrice della prefazione del libro.

Emanuele Sacerdote prende in esame le aziende storiche, ovvero quelle che vantano di una tradizione acquisita in oltre 100 anni di attività ininterrotta, “in quanto rappresentano il risultato più qualificato per raccontare il supremo traguardo dell’azienda, cioè quello di perdurare nel tempo”.

Centro del suo libro “la prosecuzione, la continuità e lo sviluppo della longevità e della salienza delle imprese storiche”. Il cambiamento diventa così il momento critico da gestire, per mantenere una coerenza col passato ed al tempo stesso progettare lo sviluppo futuro.

Sacerdote delinea due modelli operativi applicati: il primo denominato ReModel, facendo riferimento alle Aziende Storiche operative viventi e pulsanti, ha lo scopo di rilanciare e riposizionare l’azienda secondo nuove logiche e direttrici; il secondo, denominato ReNew, ha la finalità di far rivivere e rinascere le Aziende Storiche silenti , dormienti e decadute.

Aziende storiche operative e silenti raccoglie inoltre interviste ad imprenditori e numerosi casi – trai quali Officine Panerai, Pantofola d’Oro, Riso Scotti, Ermenegildo Zegna, Richard Ginori.
Il secondo capitolo presenta infatti una serie di domande ad alcuni dei protagonisti delle aziende storiche italiane sul tema della longevità.

Cesare Verona, presidente e amministratore delegato di Aurora, lo storico marchio di penne stilografiche, così definisce l’azienda storica: “Le aziende storiche affondano le radici nel passato, vivono intensamente il presente guardando sempre al futuro. Sue caratteristiche sono il lungo periodo di attività, il rispetto dei valori delle tradizioni e della famiglia, il peso delle radici”.

Jacopo Poli, proprietario dell’omonima Poli Distillerie interrogato su come un’azienda storica dovrebbe affrontare i cambiamenti del mercato suggerisce “una volta capito che un determinato modello di business dovrebbe essere modificato per aderire alle mutate esigenze del mercato, l’impresa storica dovrebbe riuscire a rinnovarsi, mantenendo saldi i valori aziendali, ma senza precludersi la possibilità di esplorare nuove strade”.

Tra le raccomandazioni per affrontare meglio il futuro di un’azienda storica Vasily Piacenza, brand manager Fratelli Piacenza S.p.A consiglia di “mantenere sempre la propria coerenza, cercando al tempo stesso di rinnovarsi stando al passo coi tempi” e Pina Amarelli, presidente della Amarelli Liquirizie di Rossano, invita a “partecipare alla vita associativa di associazioni specifiche per confrontare con gli altri le proprie esperienze e crescere insieme, quali Les Hénokies, Museimpresa, L’Unione Imprese Storiche Italiane, Le Dimore Storiche e poi l’Aidaf, il GEEF ed FBN per le aziende familiari”.

Il testo è inoltre arricchito da due interventi relativi agli archivi d’impresa di Andrea Lovati, che ci da alcune indicazione su come e dove recuperare gli archivi d’impresa di aziende silenti (Lovati cita gli Archivi Economici Territoriali, i registri delle Camere di Commercio, enti ed istituzioni tra le quali Il Centro della Cultura d’Impresa, la Fondazione ISEC, La Fondazione Ansaldo e altro ancora), e alle valorizzazioni economiche della Aziende Storiche di Alessandro Panno, secondo il quale “Determinare il valore intrinseco di un’azienda storica operativa o silente significa basare il processo valutativo sulla sequenza di benefici economici futuri che l’azienda sarà in grado di produrre in funzione delle sue caratteristiche specifiche, uniche ed esclusive

Chiude la postfazione di Giuseppe D’Avino, Consigliere Delegato della Strega Alberti Benevento Spa.

Titolo: Aziende storiche operative e silenti. Cambiamento, Evoluzione, Strategia e Rinascita
Autore: Emanuele Sacerdote
Casa Editrice: FrancoAngeli www.francoangeli.it
ISBN:978-88-917-0914-1
Lingua:Italiano




Le Officine Meccaniche Reggiane in Emilia Romagna

Le Officine Meccaniche Reggiane a Reggio Emilia, un tempo una delle più grandi realtà industriali italiane, sono rappresentate oggi da un patrimonio di documentazione di indiscusso valore che ce ne racconta la storia.

Le Officine Meccaniche Reggiane – La storia

Le Officine Meccaniche Italiane S.A., conosciute ai più come Officine Meccaniche Reggiane, o più semplicemente Reggiane nacquero nel 1904 a partire da una esistente fonderia e fin da subito iniziarono a costruire materiale ferroviario. Successivamente si diversificarono andando ad operare in settori quali le impiantistica industriale, molini, caldaie, materiale bellico e meccanica agricola.
Negli anni ‘30 e ‘40 presso le Reggiane il settore Avio assunse un  ruolo  rilevante, grazie soprattutto all’acquisizione del controllo della società da parte dell’ Ing. Giovanni Caproni, fondatore delle  omonime industrie aeronautiche Caproni. Questo consentì alle Reggiane un primo balzo tecnologico incentrando il  loro sviluppo sulla costruzione di grandi velivoli su licenza e  su  progetto proprio.

Dopo poco le Reggiane ebbero l’ opportunità di un ulteriore miglioramento nell’ ambito tecnologico grazie al trasferimento, ancora oggi non chiarito, di tecniche di lavorazione, materiali e metodi di progettazione di velivoli dagli USA. Principali artefici di questo trasferimento furono il Direttore Tecnico che poi diverrà Direttore Generale, Ing. Antonio Alessio e l’Ing. Roberto Longhi, entrambi coadiuvati dall’Ing. Fidia Piattelli. Il RE2000 fu il risultato del primo progetto, alquanto  rivoluzionario  all’epoca per  l’Italia. Tale velivolo era costruito  sulla base del velivolo americano P35 Seversky, con struttura completamente metallica basata su leghe di alluminio, alluminio puro e con rivestimento lavorante ma notevolmente migliorato grazie alla riprogettazione di ala e carrelli. Importante il lavoro progettuale degli ingegneri Maraschini, Toniolo, Pambianchi e Vardanega.I collaudi furono affidati a nomi illustri della storia aeronautica italiana tra i quali De Bernardi, Agello, Scapinelli e De Prato. Le prestazioni dimostrate dal RE2000 suscitarono  l’ interesse delle forze armate di altri paesi europei che ne decisero acquisizioni importanti.La produzione diretta dall’ Ing. Bernabei, era altrettanto all’ avanguardia poiché adottava maschere rotanti, chiodature pneumatiche ed un efficiente sistema di logistica.

All’ apice del loro sviluppo, nel 1941, le Reggiane impiegarono più di 11000 dipendenti, una città nella città che occupava una superficie di 625000 mq. Tutto ciò  portò la piccola azienda ad essere la 4° azienda più importante del Paese.

In seguito vennero sviluppati anche altri caccia della famiglia dal RE 2001 fino al 2005 e 2006, che risultarono veloci, maneggevoli e potentemente armati. Nella relazione dell’ Intelligence americana del 1943 relativa al reperimento  di un RE2005 si espresse forte preoccupazione per l’ armamento con cui era equipaggiato l’aereo e forse non fu un caso che nel gennaio del 1944 le Officine Meccaniche Reggiane vennero rase al suolo.

Alla fine del conflitto il settore Avio venne chiuso ma l’ intero tessuto industriale emiliano ne beneficiò positivamente perché il patrimonio di conoscenze tecnologiche rimasero nelle menti e nelle “mani d’oro” dei lavoratori Reggiane. L’azienda continuò  nel dopoguerra la sua attività con  produzioni differenziate nei settori: ferroviario, alimentare, movimentazione, grazie alle competenze acquisite negli anni  nelle  lavorazioni di legno, acciaio, leghe leggere e nell’  arredamento delle carrozze ferroviarie per conto di compagnie  italiane e straniere.

Officine Reggiane (sul Canale ufficiale del Comune di Reggio Emilia)

Le Officine Meccaniche Reggiane – La fabbrica

Il sito delle Officine Meccaniche Reggiane si caratterizzava da una fabbrica di 260 mila metri quadrati, fatta di capannoni incastonati tra la linea ferroviaria da una parte e la pista per gli aerei costruiti in quegli stessi stabilimenti, che poi sarebbe stata da tutti chiamata Campo Volo, dall’altra.

il 26 ottobre 2013, nel riqualificato capannone 19 delle ex Officine Meccaniche Reggiane, oggi proprietà del Comune di Reggio Emilia, è stato inaugurato Il Tecnopolo di Reggio Emilia. L’edificio – 3.500 metri quadrati – costruito tra gli anni Venti e Trenta del Novecento e vincolato dalla Sovrintendenza, è stato riqualificato con un investimento di cui se n’è fatto carico il Comune e la Regione Emilia-Romagna. La firma dei lavori è di Andrea Oliva. L’intervento dell’architetto si distingue sia per la sensibilità verso il dialogo fra preesistenza e nuova costruzione sia per la cura con la quale sono state affrontate le opere di recupero, consolidamento, restauro.

Le Officine Meccaniche Reggiane – L’Archivio Digitale OMI Reggiane

L’Archivio Digitale OMI Reggiane, istituito presso le Università di studi di Modena e Reggio Emilia,  è il progetto che mira a conservare e catalogare il patrimonio documentario di quella che fu una delle più importanti realtà industriali italiane.  L’archivio digitale contiene testi, manuali, disegni, relazioni, schede tecniche, fotografie, cartoline provenienti da archivi pubblici, quali l’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, e da archivi privati. L’archivio attualmente comprende due sezioni: la sezione aeronautica e la sezione ferroviaria.

Le Officine Meccaniche Reggiane –  Mulini e pastifici

Con la diversificazione, tra gli anni ’20 e ’60, a seguito dell’acquisizione di una società specializzata nel settore con sede a Monza, le Officine Meccaniche Reggiane si distinsero anche per la realizzazione di macchinari per mulini e pastifici. Diversi le aziende, italiane ed estere, che si affidarono alla tecnologia delle Reggiane per portare a compimento la propria produzione.

Tra questi il Pastificio Russo di Termini Imerese (PA), che la scorsa estate, dopo un attento restauro, ha donato una selezionatrice da semola  “Reggiane” degli anni  Trenta, per l’esattezza una pulitrice quadrupla da semole, che oggi si trova quindi nel luogo originario della sua costruzione: il capannone 19 ora sede del Tecnopolo.

È possibile ammirare delle interessanti macchine provenienti Officine Meccaniche Reggiane anche all’interno del Museo Mulino di Bottonera di Chiavenna, un tempo utilizzate dallo storico Pastifico Moro.

Macchinari firmati “Officine Meccaniche Reggiane” anche all’interno del  il Mulino Pizzardi  nel comune di Bentivoglio (BO), patrimonio straordinario dell’archeologia industriale del territorio bolognese.

Sito archeologico industriale:: Officine Meccaniche Reggiane
Settore industriale: Industria Metalmeccanica
Luogo: Reggio Emilia, Emilia Romagna, Italia
Proprietà e Gestione: Comune di Reggio Emilia www.municipio.re.it
Testo a cura di:Adriano e Paolo Riatti – Curatori Archivio Digitale OMI Reggiane – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia




MUMAC – Il libro che racconta il Museo della Macchina per Caffè di Binasco

MUMAC – Il Museo della Macchina per Caffè è il libro edito da Francesco Mondadori con prefazione di Philippe Daverio che racconta l’omonimo museo di Binasco voluto dal Gruppo Cimbali in occasione dei sui cento anni di attività.

 

Il museo – scrive Philippe Daverio nella sua prefazione – è luogo di documentazione e di formazione, e lo è di tutto ciò che viene reputato degno di queste due formidabili missioni … Gruppo Cimbali, con MUMAC, ha realizzato da questo punto di vista un progetto preciso che ambisce ad essere esemplare.

Il libro ci accompagna lungo un percorso che ha inizio dall’idea della realizzazione del museo, per proseguire con lo studio del progetto, addentrandoci poi nella sua collezione e terminando, infine, nel descrive le diverse attività che lo spazio accoglie al suo interno.

MUMAC – Dal sogno alla realtà

Maurizio Cimbali racconta del suo incontro negli anni Novanta con Enrico Maltoni, studioso e collezionista di macchine per caffè espresso d’epoca e di libri antichi attinenti alla materia (la sua collezione è confluita nel progetto MUMAC), sino alla scintilla che ha portato alla realizzazione del museo per celebrare i cento anni di attività dell’azienda.

Poi la scintilla – racconta Maurizio Cimbali – : al posto dell’evento effimero, sicuramente d’impatto ma destinato ad essere dimenticato nel giro di qualche mese,potevamo pensare a qualcosa che celebrasse il centenario dell’azienda ed al tempo stesso durasse nel tempo. E così l’idea di un museo ha cominciato a farsi più concreta.

MUMAC – Il Progetto MUMAC

Architettura e design al servizio della cultura del Caffè.
Il MUMAC si presenta come uno dei più interessanti esempi di architettura museale contemporanea. L’esterno è caratterizzato da forme sinuose – in contrasto con la conformazione dello spazio interno dai tagli decisi -che, sapientemente illuminate, accompagnano il visitatore lungo un percorso di suggestioni e rimandi futuristici. Difficile credere che prima di allora l’edificio fosse un magazzino di ricambi dell’azienda. Curato in ogni suo aspetto, dal giardino esterno agli ambienti interni fortemente evocativi, il progetto MUMAC rappresenta in pieno le caratteristiche del Gruppo Cimbali: passione, tradizione ed avanguardia.

MUMAC – La Collezione

La collezione del MUMAC è la più grande al mondo dedicata alle macchine per caffè professionali.
Nasce dall’incontro della storia della famiglia Cimbali con Enrico Maltoni, appassionato collezionista di macchine per caffè. Oggi la collezione vanta di oltre 200 pezzi, oltre a numerosissimi libri, gadget, documenti storici, poster, brevetti, articoli, giornali e riviste.
All’interno del libro la storia della collezione, un percorso che parte dal 1906 sino ai giorni nostri, passando attraverso prestigiosi nomi del design quali i Fratelli Castiglioni, Sottsass, Giugiaro, Ponti, Munari.

MUMAC – Le anime del MUMAC

Il Mumac non è solo contenitore di una delle più esclusive collezioni di oggetti industriali, ma anche spazio per Eventi, una Academy per la diffusione della cultura del caffè, formazione e ricerca, ed un luogo per l’attività Educational indirizzata alle scuole. All’interno del libro un approfondimento su ognuna delle anime del MUMAC che si rivela così non un luogo statico nel quale conservare oggetti, ma uno spazio dinamico nel quale generare conoscenza e cultura d’impresa.

Il libro MUMAC è corredato da un apparato iconografico assolutamente unico composto da splendide fotografie del luogo e della collezione, immagini storiche, disegni di progetti.

Il libro MUMAC è bilingue: italiano ed inglese per dare a tutti la possibilità discoprire questo piccolo grande gioiello del Made in Italy.

Il libro MUMAC è già disponibile in libreria o online

Leggi anche Il MUMAC : Museo della Macchina per Caffè in Lombardia

Titolo: MUMAC – Museo della Macchina per Caffè
Curatore Editoriale: Stefano Bagiotti
Casa Editrice: Francesco Mondadori www.moremondadori.com
ISBN:978-88-97702-24-5
Lingua: Edizione Bilingue. Italiano Inglese




Il MUMAC : Museo della Macchina per Caffè in Lombardia

Il MUMAC – Museo della Macchina per Caffè, realizzato dal Gruppo Cimbali per festeggiare i cento anni di attività,  raccoglie la più prestigiosa collezione di macchine per caffè espresso al mondo.

Inaugurato nel 2012 nella sede dell’azienda a Binasco, in provincia di Milano, in quello che originariamente era uno dei magazzini di ricambi, il MUMAC  si pone l’obiettivo di contribuire a tutelare il patrimonio italiano rappresentato da questo settore.

Il progetto del MUMAC,  spazio polifunzionale – esposizione permanente, location per eventi e meeting, Academy per la diffusione della cultura del caffè – che si estende per una superficie di quasi 2.000 mq, è firmato dall’architetto Paolo Balzanelli e dall’ingegnere Valerio Cometti, che ne hanno curato tutti gli aspetti, dalla definizione del logo alla progettazione degli spazi, dall’allestimento agli arredi. Il progetto
ha ricevuto il riconoscimento della rivista cinese JTART, tra le più autorevoli nel settore design/architettura, che lo ha inserito nei 100 edifici più belli del mondo.

L’allestimento, fortemente evocativo grazie anche all’utilizzo di selezionate immagini storiche, accompagna il visitatore in un viaggio nel tempo alla scoperta delle lucenti macchine per caffè espresso. Cuore del percorso espositivo, concepito come sorpresa  al centro del labirinto, sospeso tra pareti dal colore rosso, l’esploso dell’ammiraglia di casa Cimbali: la M1000, che svela la tecnologia all’interno di una macchina per caffè.

La collezione permanente del MUMAC, aperta al pubblico,è in grado di offrire tutte le informazioni e gli approfondimenti sulla storia, la cultura e il design della macchina per caffè espresso. La raccolta rappresenta e tutela il patrimonio italiano di questo settore, raccontando, attraverso le macchine e i supporti multimediali presenti, gli ultimi cento anni di made in Italy.

Il MUMAC è associato a Museimpresa, l’associazione italiana dei musei e degli archivi d’impresa, promossa da Assolombarda e Confindustria.

La Collezione delle macchine per caffè espresso del MUMAC

Il racconto parte dai primi anni del novecento, con un ambiente tipico dei caffè Liberty e del ventennio, attraversa gli anni del boom economico italiano e la nascita di un nuovo modo di vivere rappresentato dalla vita nei bar, sino al fiorire del design e alla sua esplosione con i grandi designer degli anni sessanta e settanta. Meritano di essere ricordati i Fratelli Castiglioni, Sottsass, Giugiaro, Ponti.
La storia continua con la metamorfosi internazionale vissuta negli anni ottanta e novanta sino ad arrivare nel nuovo millennio con i pezzi più innovativi ad alta tecnologia.

Composto da oltre 200 macchine espresso da bar, il MUMAC raccoglie la Collezione Enrico Maltoni –  studioso e collezionista di macchine per caffè espresso d’epoca e di libri antichi attinenti alla materia (circa 150 pezzi, 500 volumi dal 1592 e oggetti vari legati legati ai grandi marchi storici d’Italia) e Cimbali (circa 50 pezzi). Si tratta complessivamente della collezione più completa e meglio conservata a livello internazionale e raccoglie i marchi di case costruttrici ancora presenti sul mercato dopo molti anni come La Pavoni, La Victoria Arduino, Bezzera, La San Marco, LaCimbali, Rancilio, La Marzocco, La Carimali, Gaggia, Faema, Nuova Simonelli, La Spaziale. Accanto alle macchine, il museo è arricchito da un archivio storico di oltre 15.000 documenti selezionati e catalogati che saranno fruibili a un pubblico di ricercatori, studenti e semplici appassionati.

Il Gruppo Cimbali

Fondata nel 1912, anno nel quale Giuseppe Cimbali apre un negozio per la lavorazione del rame nel centro di Milano,  l’attività si espande all’inizio degli anni ’30 a seguito dell’acquisizione di un cliente, la S.I.T.I., specializzata nella produzione di macchine per caffè espresso, nasce così la Ditta Giuseppe Cimbali. Il grande successo viene raggiunto nel 1950 quando anche Cimbali, ormai diventata nota come “La Cimbali”, adotta la tecnologia a leva che consente l’erogazione di un espresso con la crema. A metà degli anni ’90 La Cimbali acquisisce la storica concorrente FAEMA, dando vita a Gruppo Cimbali, una realtà che ad oggi vanta anche la presenza dei brand Casadio ed Hemerson.

Oggi il Gruppo Cimbali, oltre la sede principale di Binasco (Milano) conta quattro siti (di cui tre produttivi), tutti situati in Lombardia, per un’area totale di 85.000 mq, dei quali 46.000 coperti. I dipendenti sono più di 650 e il 30% opera all’estero, il brand è presente infatti in oltre 100 Paesi dove la distribuzione è affidata a 700 distributori diretti e alle filiali. L’azienda è solida e in costante crescita, come testimonia il fatturato in costante aumento.

Gruppo Cimbali rappresenta una di quelle grandi realtà tutte italiane che del proprio passato ha fatto la sua arma vincente per affrontare il futuro.

Per informazioni:
MUMAC  Via P. Neruda, 2, 20082 Binasco MI – Tel: 02 9004 9362
www.mumac.it

Leggi anche MUMAC – Il libro che racconta il Museo della Macchina per Caffè di Binasco

Sito archeologico industriale:MUMAC : Museo della Macchina per Caffè
Settore industriale: Industria Macchine per caffè
Luogo: Binasco, Milano, Lombardia, Italia
Proprietà e Gestione: Gruppo Cimbali www.cimbali.it
Testo a cura di:Ufficio Stampa Gruppo Cimbali




La Miniera di Cogne in Valle d’Aosta e il suo Cuore di Ferro

La miniera di magnetite di Cogne nel Parco Nazionale del Gran Paradiso è stata per decenni fonte di materia prima per l’impianto siderurgico di Aosta. Chiusa nel 1979, la miniera è in attesa di diventare un museo di archeologia industriale.

L’insediamento minerario di Cogne, il più importante della Valle d’Aosta, è uno dei più importanti siti di estrazione di minerali di ferro del nostro paese, luogo di lavoro di generazioni di Cognens e di emigrati da provenienti da tutta Italia, cuore pulsante della valle prima che il turismo diventasse la prima risorsa economica, venne sfruttato sin dall’antichità.

Il primo documento relativo al sito risale al 1432. Da quell’anno l’attività di estrazione della magnetite è stata praticamente ininterrotta, ma è con l’inizio del 900 che si avvia l’estrazione su scala industriale, con la costruzione di una filiera che va dalla coltivazione del minerale, alla prima lavorazione del grezzo in loco, al trasporto a valle tramite teleferiche e un trenino fino alla trasformazione in acciaio nell’impianto “Cogne”, ad Aosta. Il villaggio minerario di Colonna, a 2500 metri sul livello del mare, abbarbicato alla montagna come un monastero tibetano, ospitava mensa, dormitori, una chiesa e persino un cinema.

È soprattutto nel periodo dell’autarchia che vengono effettuati i maggiori investimenti, con il passaggio dell’impianto dall’Ansaldo allo Stato. La società rimase pubblica sino alla sua dismissione. Le due guerre Mondiali e l‘intervento statale diedero una forte spinta allo sfruttamento della miniera, dove lavoravano centinaia di operai, provenienti non solo da Cogne, ma da tutte le parti d’Italia. Nel 1940 vennero estratte 350 mila tonnellate di minerale e il personale impiegato alle miniere superò le mille unità.

La crisi degli anni 70 portò alla cessazione dell’estrazione. Formalmente la concessione mineraria rimase attiva: per 34 anni, alcuni dipendenti hanno continuato a lavorare in miniera, per tenere in efficienza e sicurezza gli impianti e fare un minimo di manutenzione ma nemmeno un grammo di minerale è stato più estratto da allora.

Nel maggio del 2014 è avvenuto il passaggio di proprietà. A poco più di cento anni dalla nascita della Società Anonima per Azioni Miniere di Cogne, con la definitiva cessazione della concessione mineraria, si è chiuso formalmente il sipario. Fintecna (la società pubblica ultima detentrice della concessione) ha ceduto la proprietà del sito al Comune di Cogne, restituendo in qualche modo alla comunità la proprietà di questo loro pezzo di storia.

La miniera di Cogne e il Comitato Cuore di Ferro: un museo di archeologia industriale a cielo aperto

Salviamo le miniere di Cogne! Firma l’appello di Legambiente

Salviamo le miniere di Cogne! Firma l’appello di Legambiente

La miniera oggi è una bella testimonianza di archeologia industriale, raggiungibile con un trekking di un paio d’ore non

particolarmente impegnativo: sono ben visibili i resti delle teleferiche per il trasporto del materiale, la funivia per i passeggeri e i tanti edifici. Ma le transenne impediscono l’entrata.

Trasformare quell’enorme complesso fatto di gallerie, impianti di trasformazione, teleferiche e piani inclinati, trenini che si inoltrano nella montagna, terrazze con vista su una corona mozzafiato di montagne non sarà facile e richiede massicci investimenti. C’è chi, a Cogne, si batte da anni per questo obiettivo e si dice convinto che per un progetto del genere possano arrivare facilmente i Fondi europei. Si tratta del Comitato Cuore di Ferro, un comitato spontaneo per la Difesa del Bacino minerario di Cogne e della Ferrovia del Drinc, che ha come obiettivo la riconversione in parco minerario, che condurrebbe i visitatori nel villaggio minerario più alto d’Europa, a 2.500 metri, con gallerie e impianti visitabili, un panorama che va dal Monte Bianco al Gran Paradiso, sulle tracce di generazioni di Cognens e di immigrati. Ma nessun progetto è mai andato oltre il pourparler.

Adesso il sito è perfettamente in sicurezza: Fintecna, prima di abbandonarlo definitivamente, ha dovuto mettere in atto una serie di interventi (raccolta acque all’interno della miniera, messa in sicurezza delle vie d’accesso e delle gallerie interne, messa in sicurezza delle zone esterne).

Il Comitato Cuore di Ferro, animato – tra gli altri – da due discendenti di Franz Elter, mitico direttore-partigiano dell’impianto, ha presentato un piano di fattibilità finalizzato alla creazione di un parco minerario dall’enorme potenziale, una via del ferro che da Aosta conduce i visitatori sino alla miniera, rimettendo in funzione il trenino che trasportava il minerale a valle.

Il trenino in questione in realtà è già stato sottoposto a una serie di interventi per essere adibito al trasporto persone, intorno agli anni 90, ma non è mai stato attivato, a causa di una serie di magagne saltate fuori in sede di collaudo. Il direttore dei lavori è stato condannato a risarcire la cifra record di 13 milioni e la Regione ha stabilito che la ferrovia non potrà mai essere attivata, destinandola allo smantellamento. Anche in questo caso, il Comitato Cuore di ferro non ci sta, perché è convinto che il museo minerario abbia senso solo in una logica di sistema, che parta dall’acciaieria di Aosta e arriva sino alla miniera.

Il Comune di Cogne si è impegnato, nel momento in cui ha rilevato la proprietà del sito, di destinarlo ad attività socio-culturali.

La vicenda della miniera è raccontata – oltreché in un piccolo museo ai piedi dell’insediamento, nel villaggio Anselmetti – anche da un film, “Questa miniera”, realizzato dalla regista Valeria Allievi, che racconta il desiderio della comunità di Cogne, dove ogni famiglia ha avuto un minatore in casa, di mantenere saldo il filo della memoria del suo “cuore di ferro”

Questa miniera di Valeria Allievi | Trailer del 61° Trento Film Festival

 

Informazioni: Fondation Grand Paradis
Villaggio Minatori, 11012 Cogne (Ao) – Tel: +39-0165-75301

Sito archeologico industriale:Miniera di magnetite di Cogne
Settore industriale: Industria mineraria
Luogo: Cogne, Aosta, Valle d’Aosta, Italia
Proprietà e Gestione: Comune di Cogne www.comune.cogne.ao.it
Testo a cura di:Silvano Rubino, giornalista – tratto in parte da articoli pubblicati dal Fatto Quotidiano
Crediti fotografici: Silvano Rubino