La Fondazione Fiera Milano e il suo Archivio Storico

L’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano nasce dalla volontà dell’omonima Fondazione di divulgare la storia dell’Ente Autonomo Fiera Internazionale di Milano riportando le testimonianze di un’impresa che tanti ricordi ha lasciato nella memoria di milioni di visitatori.

«Ci rivedremo quest’altr’anno alla Fiera», dicevano i commercianti del mio paese, e non aggiungevano «di Milano» perché sarebbe stato un pleonasmo. (V. Cardarelli)

Storia e sede dell’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano

Il 1 febbraio 2005, l’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano è stato riconosciuto di notevole interesse storico dalla Soprintendenza Archivistica per la Lombardia.

Il 2005 è stato un anno di grande importanza per la storia della Fiera di Milano e non solo, proprio dieci anni fa veniva infatti inaugurato il polo fieristico a Rho-Pero (provincia di Milano). La Fiera lasciava quindi il suo storico quartiere, la vecchia piazza D’Armi di Milano, che la aveva ospitata dal 1923, per un nuovo e più efficiente sito. Tanti anni di attività sono testimoniati dall’Archivio Storico che, insieme agli uffici di Fondazione Fiera Milano, è invece rimasto nel quartiere fieristico cittadino. L’archivio ha infatti la propria sede operativa nell’area adiacente Largo Domodossola 1, in una delle palazzine liberty dette “Palazzine degli Orafi” perché, fin dall’esposizione del 1923, ospitavano la sezione orafa della Fiera Campionaria.

La struttura originale delle palazzine, protette dalla Sovrintendenza ai beni artistici e architettonici come patrimonio storico, è rappresentata da un corpo centrale arcuato che è stato interamente riportato alla luce e riorganizzato nella distribuzione degli spazi, affiancato da due ali rettilinee. Recentemente sul retro è stata realizzata una struttura in vetro, visibile già dall’esterno, che dona trasparenza e leggerezza all’edificio originale senza alterarne la peculiarità, e ospita uffici operativi e un salone di rappresentanza. È stata inoltre recuperata anche l’area circostante e quella di accesso, secondo un nuovo asse prospettico che enfatizza la facciata storica degli edifici, con una piazza ritmata da aiuole e viottoli.

L’attività dell’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano

Con l’Archivio Storico, Fondazione Fiera Milano intende porsi ulteriormente come momento di riflessione e ricerca storica, complementare alle ricerche economico-territoriali, al fine di testimoniare la cultura d’impresa, narrata attraverso le immagini, i documenti, gli oggetti e il vissuto dei protagonisti che hanno caratterizzato la storia economica italiana. In quest’ottica l’Archivio Storico tutela, valorizza e mette a disposizione degli utenti, siano essi professionisti o semplici interessati, oltre 90 anni di cultura d’impresa; organizza mostre temporanee, workshop, attività di ricerca e pubblicazioni; propone visite guidate per privati ed esperti del settore; organizza mostre proprie e partecipa a iniziative di terzi con documenti originali o in riprodotti.

La collezione dell’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano

L’Archivio è diviso sostanzialmente in cinque sezioni (documenti cartacei, iconografia, filmati e registrazioni audio, oggettistica, museale) e come detto delinea oltre 90 anni di cultura di impresa.

L’Archivio Storico di Fondazione Fiera Milano condensa numeri importanti: oltre 500 metri lineari di documentazione (presidenza, segreteria generale, amministrazione, commerciale, personale), più di 200.000 fotografie (positivi, negativi su lastra di vetro, negativi su pellicola, fotocolor), 2.000 cataloghi di fiere, 100 manifesti, 350 video.

L’Archivio dispone di postazioni dove il visitatore può consultare i vari documenti, anche in versione elettronica, presenti nelle collezioni della Fondazione.

La Fondazione Fiera Milano e le sue partnership

Fondazione Fiera Milano ha inoltre aderito, attraverso il suo archivio, a Museimpresa – Associazione Italiana Archivi e Musei d’Impresa, che promuove e mette in rete le imprese che hanno scelto di privilegiare la cultura nelle proprie strategie di comunicazione, come strumento di sviluppo economico e valore aggiunto per l’azienda.

Fondazione Fiera Milano è poi partner del Portale archivi d’impresa, l’area tematica dedicata agli archivi d’impresa all’interno del Sistema Archivistico Nazionale (SAN), che è stata ideata e promossa dalla Direzione Generale per gli Archivi (DGA), con l’obiettivo di salvaguardare gli archivi storici delle imprese pubbliche e private italiane. Il Portale consente di accedere a un’ampia gamma di fonti archivistiche – più di mille archivi d’impresa – e a fonti bibliografiche. Non solo, Fondazione Fiera Milano, dando seguito al dialogo con la Direzione generale per gli Archivi, partecipa anche al Portale degli archivi della Moda nel Novecento dove ha prodotto una scheda tematica sul ruolo della Fiera di Milano quale motore per la promozione della moda italiana.

Inoltre, Fondazione Fiera Milano grazie al proprio rilevante fondo fotografico, è fra i promotori della Rete per la Valorizzazione della Fotografia, uno spazio di confronto e aggiornamento tra realtà che operano nel settore della fotografia.

Sito archeologico industriale: Fondazione Fiera Milano – Archivio Storico
Settore industriale: Fiera
Luogo: Milano, Lombardia, Italia
Proprietà e Gestione: Fondazione Fiera Milano www.fondazionefieramilano.it
Testo a cura di: Archivio Storico Fondazione Fiera Milano




Emil Otto Hoppé: Il Segreto svelato. Fotografie industriali, 1912-1937 al MAST di Bologna

Il MAST di Bologna, dal 21 gennaio al 3 maggio, presenta in anteprima mondiale la mostra fotografica di Emil Otto Hoppé, uno dei più importanti fotografi dell’epoca moderna, “Il Segreto svelato. Fotografie industriali, 1912-1937”.

 

La mostra, curata da Urs Stahel, presenta 200 scatti realizzati  nelle realtà industriali di vari paesi del mondo riportando all’attenzione del pubblico l’opera del fotografo che per lungo tempo è rimasta nascosta in un archivio fotografico londinese a cui lo stesso Hoppé aveva venduto, al termine della sua lunga e prestigiosa carriera, cinquant’anni del suo lavoro.

Emil Otto Hoppé (1878-1972) fu uno dei più importanti fotografi dell’era moderna, il cui successo artistico rivaleggiava con  quello dei suoi coetanei: Alfred Stieglitz (1864-1946), Edward Steichen (1879-1973) e Walker Evans (1903-1975).
Hoppé è stato uno dei più rinomati fotografi ritrattisti del suo tempo, così come un brillante fotografo di paesaggi e viaggi. I suoi ritratti sorprendentemente modernisti colgono l’essenza di personaggi importanti delle arti, della letteratura e della politica in Gran Bretagna e negli Stati Uniti tra le due guerre. Tra le centinaia di figure ben note ha fotografato George Bernard Shaw, HG Wells, AA Milne, T.S. Eliot, Ezra Pound, G.K. Chesterton, Leon Bakst, Vaslav Nijinsky e ballerini dei Ballets Russes, e la regina Mary, Re Giorgio, e altri membri della famiglia reale.

Per ulteriori informazioni visita il sito ufficiale del MAST




L’ex Lanificio di Stia oggi Museo dell’Arte della Lana in Toscana

Il Lanificio di Stia in provincia di Arezzo fu, fino al secondo dopoguerra, uno dei principali lanifici italiani. Dal 2010, grazie all’opera della Fondazione Luigi e Simonetta Lombard che ne è proprietaria, ha ripreso vita come Museo dell’Arte della Lana.

La storia del Lanificio di Stia

La prima Società di Lanificio di Stia fu costituita nel 1852, quando già da alcuni decenni si era sviluppata una moderna attività imprenditoriale organizzata in modo tale da concentrare in un unico stabilimento le varie fasi della lavorazione della lana. Nei primi anni ‘60 dell’Ottocento il Lanificio di Stia occupava circa 140 operai e si ricorda come il primo in Toscana ad impiegare macchinari importati dall’estero. Tra il 1862 e il 1888, sotto la direzione di Adamo Ricci, fu completata la meccanizzazione di tutto il processo produttivo e razionalizzato il complesso degli stabilimenti.

Dalla fine dell’Ottocento la famiglia Lombard divenne proprietaria del Lanificio di Stia e ne affidò la direzione al veneto Giovanni Sartori, che riammodernò la fabbrica, portandola ai livelli dei più importanti lanifici italiani e si adoperò per creare una concreta copertura previdenziale a tutti i lavoratori in difficoltà. Con la direzione di Sartori il Lanificio di Stia giunse all’apice del suo prestigio, come dimostra il fatto di essere fornitore ufficiale di Casa Savoia, e al più alto livello di occupazione. Alla fine del primo conflitto mondiale gli operai impiegati erano 500, i telai circa 136 e la produzione era di oltre 700.000 metri di stoffa. In seguito alla crisi iniziata negli anni Sessanta il Lanificio di Stia fallì nel 1985 e chiuse definitivamente nel 2000.

Simonetta Lombard, erede della famiglia proprietaria per oltre sessanta anni della Fabbrica, ne riacquisì gli edifici costituendo una Fondazione che elaborò un progetto di ristrutturazione per la realizzazione di un centro di diffusione della cultura tessile. Tale progetto si concretizzò nel 2010 con l’apertura del Museo dell’Arte della Lana.

Il restauro degli edifici dell’ex Lanificio di Stia

Il complesso del Lanificio di Stia aveva una notevole rilevanza architettonica e disponeva di una superficie utile di circa 23.000 m2; era composto da vari edifici costruiti tra il XVIII e il XX secolo. Dopo anni di abbandono molti tetti e porzioni di edifici erano crollati, infiltrazioni d’acqua danneggiavano i muri, tonnellate di materiale di scarico era accatastato e marciva dentro e fuori gli edifici creando dissesti, la vegetazione aveva invaso ampie porzioni dello stabilimento, entrando all’interno e distruggendo anche le finiture. Malgrado ciò nel 2007 gli edifici furono posti sotto tutela diretta della Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici della Provincia di Arezzo.

Gli edifici principali hanno una struttura perimetrale in muratura di pietrame, decorata con archi in mattoni a vista; all’interno, per avere la massima fruibilità degli spazi, la struttura è realizzata con pilastri in ghisa, travi di ferro e volticciole in mattoni. L’obiettivo dell’intervento architettonico è stato quello di recuperare le principali costruzioni, conservandone la realtà di edifici industriali dismessi. Per quanto possibile, le strutture murarie e le finiture sono state conservate come ci sono pervenute; è stata effettuata prevalentemente un’opera di pulitura e manutenzione, anche se sono state rifatte le coperture crollate e sono stati realizzati dei nuovi impianti e servizi. Gli intonaci originari sono stati mantenuti e le lacune di quelli esterni, decorati con finto bugnato, sono state riprese con intonaco grezzo. Anche i pavimenti originari in cemento sono stati puliti e conservati come le “buche” che erano state realizzate per la manutenzione degli assortimenti di cardatura.

Il Museo dell’Arte della Lana

Il percorso espositivo è un cammino nella storia dell’arte della lana dai primordi della civiltà umana fino alla rivoluzione industriale e all’età d’oro del Lanificio di Stia. Visitare il Museo è una vera e propria esperienza sensoriale, dove si può toccare, annusare, ascoltare, imparare, provando in prima persona la manualità di alcuni gesti propri dell’arte della lana: i visitatori possono ancora riconoscere all’interno delle sale, che ospitavano in passato i cicli produttivi delle lavorazioni tessili, l’odore degli oli per la lubrificazione della lana per la cardatura, quelli intensi dei filati e dei tessuti appena tinti, o quelli metallici e acuti dei macchinari tessili, e con un po’ d’immaginazione si può riuscire anche a percepire le essenze del lavoro e della fatica che sono ancora attaccate alle pareti. Per far riascoltare ai visitatori gli assordanti rumori che rimbombavano negli stanzoni durante le lavorazioni sono stati creati dei percorsi sonori che ridanno voce ai vari macchinari. Anche il tatto è fondamentale per comprendere pienamente le lavorazioni tessili e le qualità di una stoffa. In collaborazione con l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti sono stati realizzati dei percorsi tattili utilissimi per tutti i visitatori.

Tutte le proposte didattiche del museo sono improntate alla sperimentazione per meglio comprendere le fasi di lavorazione della lana: nell’aula didattica sono eseguiti, con l’aiuto di alcuni strumenti, i procedimenti che trasformano il vello della pecora in tessuto.

Museo dell’Arte della Lana ex Lanificio di Stia
Via G. Sartori 2 – 5201 Pratovecchio Stia (Ar)
info@museodellartedellalana.it

Sito archeologico industriale: ex Lanificio di Stia oggi Museo dell’Arte della Lana
Settore industriale: Industria Tessile
Luogo: Stia, Arezzo, Toscana, Italia
Proprietà e Gestione: Fondazione Lombard www.museodellartedellalana.it
Testo a cura di: direttore del Museo dell’Arte della Lana dott. Andrea Gori. Per la parte relativa al restauro degli edifici: Prof. Arch. Carlo Blasi, Arch. Francesca Blasi, Ing. Susanna Carfagni




Aziende storiche operative e silenti. Cambiamento, Evoluzione, Strategia e Rinascita

Il libro “Aziende storiche operative e silenti” di Emanuele Sacerdote edito da Franco Angeli ci racconta delle imprese che hanno segnato la storia del nostro paese e di come queste possono essere rinnovate o rivitalizzate.

Continuità e cambiamento. Due parole chiave apparentemente contrapposte e inconciliabili, ma dal cui equilibrio e dalla cui dosata armonia ho imparato che dipende la possibilità per un’azienda familiare di coltivare la propria longevità attraverso contesti economici diversi, sapendo interpretare aree competitive spesso sconosciute e soprattutto coniugando stili di governo diversi da parte di generazioni che intrecciano le loro storie individuali, le loro aspirazioni, attitudini, ambizioni”.
Queste le parole di Patrizia Misciattelli delle Ripe, Presidente dell’Associazione Italiana Family Office, autrice della prefazione del libro.

Emanuele Sacerdote prende in esame le aziende storiche, ovvero quelle che vantano di una tradizione acquisita in oltre 100 anni di attività ininterrotta, “in quanto rappresentano il risultato più qualificato per raccontare il supremo traguardo dell’azienda, cioè quello di perdurare nel tempo”.

Centro del suo libro “la prosecuzione, la continuità e lo sviluppo della longevità e della salienza delle imprese storiche”. Il cambiamento diventa così il momento critico da gestire, per mantenere una coerenza col passato ed al tempo stesso progettare lo sviluppo futuro.

Sacerdote delinea due modelli operativi applicati: il primo denominato ReModel, facendo riferimento alle Aziende Storiche operative viventi e pulsanti, ha lo scopo di rilanciare e riposizionare l’azienda secondo nuove logiche e direttrici; il secondo, denominato ReNew, ha la finalità di far rivivere e rinascere le Aziende Storiche silenti , dormienti e decadute.

Aziende storiche operative e silenti raccoglie inoltre interviste ad imprenditori e numerosi casi – trai quali Officine Panerai, Pantofola d’Oro, Riso Scotti, Ermenegildo Zegna, Richard Ginori.
Il secondo capitolo presenta infatti una serie di domande ad alcuni dei protagonisti delle aziende storiche italiane sul tema della longevità.

Cesare Verona, presidente e amministratore delegato di Aurora, lo storico marchio di penne stilografiche, così definisce l’azienda storica: “Le aziende storiche affondano le radici nel passato, vivono intensamente il presente guardando sempre al futuro. Sue caratteristiche sono il lungo periodo di attività, il rispetto dei valori delle tradizioni e della famiglia, il peso delle radici”.

Jacopo Poli, proprietario dell’omonima Poli Distillerie interrogato su come un’azienda storica dovrebbe affrontare i cambiamenti del mercato suggerisce “una volta capito che un determinato modello di business dovrebbe essere modificato per aderire alle mutate esigenze del mercato, l’impresa storica dovrebbe riuscire a rinnovarsi, mantenendo saldi i valori aziendali, ma senza precludersi la possibilità di esplorare nuove strade”.

Tra le raccomandazioni per affrontare meglio il futuro di un’azienda storica Vasily Piacenza, brand manager Fratelli Piacenza S.p.A consiglia di “mantenere sempre la propria coerenza, cercando al tempo stesso di rinnovarsi stando al passo coi tempi” e Pina Amarelli, presidente della Amarelli Liquirizie di Rossano, invita a “partecipare alla vita associativa di associazioni specifiche per confrontare con gli altri le proprie esperienze e crescere insieme, quali Les Hénokies, Museimpresa, L’Unione Imprese Storiche Italiane, Le Dimore Storiche e poi l’Aidaf, il GEEF ed FBN per le aziende familiari”.

Il testo è inoltre arricchito da due interventi relativi agli archivi d’impresa di Andrea Lovati, che ci da alcune indicazione su come e dove recuperare gli archivi d’impresa di aziende silenti (Lovati cita gli Archivi Economici Territoriali, i registri delle Camere di Commercio, enti ed istituzioni tra le quali Il Centro della Cultura d’Impresa, la Fondazione ISEC, La Fondazione Ansaldo e altro ancora), e alle valorizzazioni economiche della Aziende Storiche di Alessandro Panno, secondo il quale “Determinare il valore intrinseco di un’azienda storica operativa o silente significa basare il processo valutativo sulla sequenza di benefici economici futuri che l’azienda sarà in grado di produrre in funzione delle sue caratteristiche specifiche, uniche ed esclusive

Chiude la postfazione di Giuseppe D’Avino, Consigliere Delegato della Strega Alberti Benevento Spa.

Titolo: Aziende storiche operative e silenti. Cambiamento, Evoluzione, Strategia e Rinascita
Autore: Emanuele Sacerdote
Casa Editrice: FrancoAngeli www.francoangeli.it
ISBN:978-88-917-0914-1
Lingua:Italiano




Le Officine Meccaniche Reggiane in Emilia Romagna

Le Officine Meccaniche Reggiane a Reggio Emilia, un tempo una delle più grandi realtà industriali italiane, sono rappresentate oggi da un patrimonio di documentazione di indiscusso valore che ce ne racconta la storia.

Le Officine Meccaniche Reggiane – La storia

Le Officine Meccaniche Italiane S.A., conosciute ai più come Officine Meccaniche Reggiane, o più semplicemente Reggiane nacquero nel 1904 a partire da una esistente fonderia e fin da subito iniziarono a costruire materiale ferroviario. Successivamente si diversificarono andando ad operare in settori quali le impiantistica industriale, molini, caldaie, materiale bellico e meccanica agricola.
Negli anni ‘30 e ‘40 presso le Reggiane il settore Avio assunse un  ruolo  rilevante, grazie soprattutto all’acquisizione del controllo della società da parte dell’ Ing. Giovanni Caproni, fondatore delle  omonime industrie aeronautiche Caproni. Questo consentì alle Reggiane un primo balzo tecnologico incentrando il  loro sviluppo sulla costruzione di grandi velivoli su licenza e  su  progetto proprio.

Dopo poco le Reggiane ebbero l’ opportunità di un ulteriore miglioramento nell’ ambito tecnologico grazie al trasferimento, ancora oggi non chiarito, di tecniche di lavorazione, materiali e metodi di progettazione di velivoli dagli USA. Principali artefici di questo trasferimento furono il Direttore Tecnico che poi diverrà Direttore Generale, Ing. Antonio Alessio e l’Ing. Roberto Longhi, entrambi coadiuvati dall’Ing. Fidia Piattelli. Il RE2000 fu il risultato del primo progetto, alquanto  rivoluzionario  all’epoca per  l’Italia. Tale velivolo era costruito  sulla base del velivolo americano P35 Seversky, con struttura completamente metallica basata su leghe di alluminio, alluminio puro e con rivestimento lavorante ma notevolmente migliorato grazie alla riprogettazione di ala e carrelli. Importante il lavoro progettuale degli ingegneri Maraschini, Toniolo, Pambianchi e Vardanega.I collaudi furono affidati a nomi illustri della storia aeronautica italiana tra i quali De Bernardi, Agello, Scapinelli e De Prato. Le prestazioni dimostrate dal RE2000 suscitarono  l’ interesse delle forze armate di altri paesi europei che ne decisero acquisizioni importanti.La produzione diretta dall’ Ing. Bernabei, era altrettanto all’ avanguardia poiché adottava maschere rotanti, chiodature pneumatiche ed un efficiente sistema di logistica.

All’ apice del loro sviluppo, nel 1941, le Reggiane impiegarono più di 11000 dipendenti, una città nella città che occupava una superficie di 625000 mq. Tutto ciò  portò la piccola azienda ad essere la 4° azienda più importante del Paese.

In seguito vennero sviluppati anche altri caccia della famiglia dal RE 2001 fino al 2005 e 2006, che risultarono veloci, maneggevoli e potentemente armati. Nella relazione dell’ Intelligence americana del 1943 relativa al reperimento  di un RE2005 si espresse forte preoccupazione per l’ armamento con cui era equipaggiato l’aereo e forse non fu un caso che nel gennaio del 1944 le Officine Meccaniche Reggiane vennero rase al suolo.

Alla fine del conflitto il settore Avio venne chiuso ma l’ intero tessuto industriale emiliano ne beneficiò positivamente perché il patrimonio di conoscenze tecnologiche rimasero nelle menti e nelle “mani d’oro” dei lavoratori Reggiane. L’azienda continuò  nel dopoguerra la sua attività con  produzioni differenziate nei settori: ferroviario, alimentare, movimentazione, grazie alle competenze acquisite negli anni  nelle  lavorazioni di legno, acciaio, leghe leggere e nell’  arredamento delle carrozze ferroviarie per conto di compagnie  italiane e straniere.

Officine Reggiane (sul Canale ufficiale del Comune di Reggio Emilia)

Le Officine Meccaniche Reggiane – La fabbrica

Il sito delle Officine Meccaniche Reggiane si caratterizzava da una fabbrica di 260 mila metri quadrati, fatta di capannoni incastonati tra la linea ferroviaria da una parte e la pista per gli aerei costruiti in quegli stessi stabilimenti, che poi sarebbe stata da tutti chiamata Campo Volo, dall’altra.

il 26 ottobre 2013, nel riqualificato capannone 19 delle ex Officine Meccaniche Reggiane, oggi proprietà del Comune di Reggio Emilia, è stato inaugurato Il Tecnopolo di Reggio Emilia. L’edificio – 3.500 metri quadrati – costruito tra gli anni Venti e Trenta del Novecento e vincolato dalla Sovrintendenza, è stato riqualificato con un investimento di cui se n’è fatto carico il Comune e la Regione Emilia-Romagna. La firma dei lavori è di Andrea Oliva. L’intervento dell’architetto si distingue sia per la sensibilità verso il dialogo fra preesistenza e nuova costruzione sia per la cura con la quale sono state affrontate le opere di recupero, consolidamento, restauro.

Le Officine Meccaniche Reggiane – L’Archivio Digitale OMI Reggiane

L’Archivio Digitale OMI Reggiane, istituito presso le Università di studi di Modena e Reggio Emilia,  è il progetto che mira a conservare e catalogare il patrimonio documentario di quella che fu una delle più importanti realtà industriali italiane.  L’archivio digitale contiene testi, manuali, disegni, relazioni, schede tecniche, fotografie, cartoline provenienti da archivi pubblici, quali l’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, e da archivi privati. L’archivio attualmente comprende due sezioni: la sezione aeronautica e la sezione ferroviaria.

Le Officine Meccaniche Reggiane –  Mulini e pastifici

Con la diversificazione, tra gli anni ’20 e ’60, a seguito dell’acquisizione di una società specializzata nel settore con sede a Monza, le Officine Meccaniche Reggiane si distinsero anche per la realizzazione di macchinari per mulini e pastifici. Diversi le aziende, italiane ed estere, che si affidarono alla tecnologia delle Reggiane per portare a compimento la propria produzione.

Tra questi il Pastificio Russo di Termini Imerese (PA), che la scorsa estate, dopo un attento restauro, ha donato una selezionatrice da semola  “Reggiane” degli anni  Trenta, per l’esattezza una pulitrice quadrupla da semole, che oggi si trova quindi nel luogo originario della sua costruzione: il capannone 19 ora sede del Tecnopolo.

È possibile ammirare delle interessanti macchine provenienti Officine Meccaniche Reggiane anche all’interno del Museo Mulino di Bottonera di Chiavenna, un tempo utilizzate dallo storico Pastifico Moro.

Macchinari firmati “Officine Meccaniche Reggiane” anche all’interno del  il Mulino Pizzardi  nel comune di Bentivoglio (BO), patrimonio straordinario dell’archeologia industriale del territorio bolognese.

Sito archeologico industriale:: Officine Meccaniche Reggiane
Settore industriale: Industria Metalmeccanica
Luogo: Reggio Emilia, Emilia Romagna, Italia
Proprietà e Gestione: Comune di Reggio Emilia www.municipio.re.it
Testo a cura di:Adriano e Paolo Riatti – Curatori Archivio Digitale OMI Reggiane – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia




MUMAC – Il libro che racconta il Museo della Macchina per Caffè di Binasco

MUMAC – Il Museo della Macchina per Caffè è il libro edito da Francesco Mondadori con prefazione di Philippe Daverio che racconta l’omonimo museo di Binasco voluto dal Gruppo Cimbali in occasione dei sui cento anni di attività.

 

Il museo – scrive Philippe Daverio nella sua prefazione – è luogo di documentazione e di formazione, e lo è di tutto ciò che viene reputato degno di queste due formidabili missioni … Gruppo Cimbali, con MUMAC, ha realizzato da questo punto di vista un progetto preciso che ambisce ad essere esemplare.

Il libro ci accompagna lungo un percorso che ha inizio dall’idea della realizzazione del museo, per proseguire con lo studio del progetto, addentrandoci poi nella sua collezione e terminando, infine, nel descrive le diverse attività che lo spazio accoglie al suo interno.

MUMAC – Dal sogno alla realtà

Maurizio Cimbali racconta del suo incontro negli anni Novanta con Enrico Maltoni, studioso e collezionista di macchine per caffè espresso d’epoca e di libri antichi attinenti alla materia (la sua collezione è confluita nel progetto MUMAC), sino alla scintilla che ha portato alla realizzazione del museo per celebrare i cento anni di attività dell’azienda.

Poi la scintilla – racconta Maurizio Cimbali – : al posto dell’evento effimero, sicuramente d’impatto ma destinato ad essere dimenticato nel giro di qualche mese,potevamo pensare a qualcosa che celebrasse il centenario dell’azienda ed al tempo stesso durasse nel tempo. E così l’idea di un museo ha cominciato a farsi più concreta.

MUMAC – Il Progetto MUMAC

Architettura e design al servizio della cultura del Caffè.
Il MUMAC si presenta come uno dei più interessanti esempi di architettura museale contemporanea. L’esterno è caratterizzato da forme sinuose – in contrasto con la conformazione dello spazio interno dai tagli decisi -che, sapientemente illuminate, accompagnano il visitatore lungo un percorso di suggestioni e rimandi futuristici. Difficile credere che prima di allora l’edificio fosse un magazzino di ricambi dell’azienda. Curato in ogni suo aspetto, dal giardino esterno agli ambienti interni fortemente evocativi, il progetto MUMAC rappresenta in pieno le caratteristiche del Gruppo Cimbali: passione, tradizione ed avanguardia.

MUMAC – La Collezione

La collezione del MUMAC è la più grande al mondo dedicata alle macchine per caffè professionali.
Nasce dall’incontro della storia della famiglia Cimbali con Enrico Maltoni, appassionato collezionista di macchine per caffè. Oggi la collezione vanta di oltre 200 pezzi, oltre a numerosissimi libri, gadget, documenti storici, poster, brevetti, articoli, giornali e riviste.
All’interno del libro la storia della collezione, un percorso che parte dal 1906 sino ai giorni nostri, passando attraverso prestigiosi nomi del design quali i Fratelli Castiglioni, Sottsass, Giugiaro, Ponti, Munari.

MUMAC – Le anime del MUMAC

Il Mumac non è solo contenitore di una delle più esclusive collezioni di oggetti industriali, ma anche spazio per Eventi, una Academy per la diffusione della cultura del caffè, formazione e ricerca, ed un luogo per l’attività Educational indirizzata alle scuole. All’interno del libro un approfondimento su ognuna delle anime del MUMAC che si rivela così non un luogo statico nel quale conservare oggetti, ma uno spazio dinamico nel quale generare conoscenza e cultura d’impresa.

Il libro MUMAC è corredato da un apparato iconografico assolutamente unico composto da splendide fotografie del luogo e della collezione, immagini storiche, disegni di progetti.

Il libro MUMAC è bilingue: italiano ed inglese per dare a tutti la possibilità discoprire questo piccolo grande gioiello del Made in Italy.

Il libro MUMAC è già disponibile in libreria o online

Leggi anche Il MUMAC : Museo della Macchina per Caffè in Lombardia

Titolo: MUMAC – Museo della Macchina per Caffè
Curatore Editoriale: Stefano Bagiotti
Casa Editrice: Francesco Mondadori www.moremondadori.com
ISBN:978-88-97702-24-5
Lingua: Edizione Bilingue. Italiano Inglese




Il MUMAC : Museo della Macchina per Caffè in Lombardia

Il MUMAC – Museo della Macchina per Caffè, realizzato dal Gruppo Cimbali per festeggiare i cento anni di attività,  raccoglie la più prestigiosa collezione di macchine per caffè espresso al mondo.

Inaugurato nel 2012 nella sede dell’azienda a Binasco, in provincia di Milano, in quello che originariamente era uno dei magazzini di ricambi, il MUMAC  si pone l’obiettivo di contribuire a tutelare il patrimonio italiano rappresentato da questo settore.

Il progetto del MUMAC,  spazio polifunzionale – esposizione permanente, location per eventi e meeting, Academy per la diffusione della cultura del caffè – che si estende per una superficie di quasi 2.000 mq, è firmato dall’architetto Paolo Balzanelli e dall’ingegnere Valerio Cometti, che ne hanno curato tutti gli aspetti, dalla definizione del logo alla progettazione degli spazi, dall’allestimento agli arredi. Il progetto
ha ricevuto il riconoscimento della rivista cinese JTART, tra le più autorevoli nel settore design/architettura, che lo ha inserito nei 100 edifici più belli del mondo.

L’allestimento, fortemente evocativo grazie anche all’utilizzo di selezionate immagini storiche, accompagna il visitatore in un viaggio nel tempo alla scoperta delle lucenti macchine per caffè espresso. Cuore del percorso espositivo, concepito come sorpresa  al centro del labirinto, sospeso tra pareti dal colore rosso, l’esploso dell’ammiraglia di casa Cimbali: la M1000, che svela la tecnologia all’interno di una macchina per caffè.

La collezione permanente del MUMAC, aperta al pubblico,è in grado di offrire tutte le informazioni e gli approfondimenti sulla storia, la cultura e il design della macchina per caffè espresso. La raccolta rappresenta e tutela il patrimonio italiano di questo settore, raccontando, attraverso le macchine e i supporti multimediali presenti, gli ultimi cento anni di made in Italy.

Il MUMAC è associato a Museimpresa, l’associazione italiana dei musei e degli archivi d’impresa, promossa da Assolombarda e Confindustria.

La Collezione delle macchine per caffè espresso del MUMAC

Il racconto parte dai primi anni del novecento, con un ambiente tipico dei caffè Liberty e del ventennio, attraversa gli anni del boom economico italiano e la nascita di un nuovo modo di vivere rappresentato dalla vita nei bar, sino al fiorire del design e alla sua esplosione con i grandi designer degli anni sessanta e settanta. Meritano di essere ricordati i Fratelli Castiglioni, Sottsass, Giugiaro, Ponti.
La storia continua con la metamorfosi internazionale vissuta negli anni ottanta e novanta sino ad arrivare nel nuovo millennio con i pezzi più innovativi ad alta tecnologia.

Composto da oltre 200 macchine espresso da bar, il MUMAC raccoglie la Collezione Enrico Maltoni –  studioso e collezionista di macchine per caffè espresso d’epoca e di libri antichi attinenti alla materia (circa 150 pezzi, 500 volumi dal 1592 e oggetti vari legati legati ai grandi marchi storici d’Italia) e Cimbali (circa 50 pezzi). Si tratta complessivamente della collezione più completa e meglio conservata a livello internazionale e raccoglie i marchi di case costruttrici ancora presenti sul mercato dopo molti anni come La Pavoni, La Victoria Arduino, Bezzera, La San Marco, LaCimbali, Rancilio, La Marzocco, La Carimali, Gaggia, Faema, Nuova Simonelli, La Spaziale. Accanto alle macchine, il museo è arricchito da un archivio storico di oltre 15.000 documenti selezionati e catalogati che saranno fruibili a un pubblico di ricercatori, studenti e semplici appassionati.

Il Gruppo Cimbali

Fondata nel 1912, anno nel quale Giuseppe Cimbali apre un negozio per la lavorazione del rame nel centro di Milano,  l’attività si espande all’inizio degli anni ’30 a seguito dell’acquisizione di un cliente, la S.I.T.I., specializzata nella produzione di macchine per caffè espresso, nasce così la Ditta Giuseppe Cimbali. Il grande successo viene raggiunto nel 1950 quando anche Cimbali, ormai diventata nota come “La Cimbali”, adotta la tecnologia a leva che consente l’erogazione di un espresso con la crema. A metà degli anni ’90 La Cimbali acquisisce la storica concorrente FAEMA, dando vita a Gruppo Cimbali, una realtà che ad oggi vanta anche la presenza dei brand Casadio ed Hemerson.

Oggi il Gruppo Cimbali, oltre la sede principale di Binasco (Milano) conta quattro siti (di cui tre produttivi), tutti situati in Lombardia, per un’area totale di 85.000 mq, dei quali 46.000 coperti. I dipendenti sono più di 650 e il 30% opera all’estero, il brand è presente infatti in oltre 100 Paesi dove la distribuzione è affidata a 700 distributori diretti e alle filiali. L’azienda è solida e in costante crescita, come testimonia il fatturato in costante aumento.

Gruppo Cimbali rappresenta una di quelle grandi realtà tutte italiane che del proprio passato ha fatto la sua arma vincente per affrontare il futuro.

Per informazioni:
MUMAC  Via P. Neruda, 2, 20082 Binasco MI – Tel: 02 9004 9362
www.mumac.it

Leggi anche MUMAC – Il libro che racconta il Museo della Macchina per Caffè di Binasco

Sito archeologico industriale:MUMAC : Museo della Macchina per Caffè
Settore industriale: Industria Macchine per caffè
Luogo: Binasco, Milano, Lombardia, Italia
Proprietà e Gestione: Gruppo Cimbali www.cimbali.it
Testo a cura di:Ufficio Stampa Gruppo Cimbali




La Miniera di Cogne in Valle d’Aosta e il suo Cuore di Ferro

La miniera di magnetite di Cogne nel Parco Nazionale del Gran Paradiso è stata per decenni fonte di materia prima per l’impianto siderurgico di Aosta. Chiusa nel 1979, la miniera è in attesa di diventare un museo di archeologia industriale.

L’insediamento minerario di Cogne, il più importante della Valle d’Aosta, è uno dei più importanti siti di estrazione di minerali di ferro del nostro paese, luogo di lavoro di generazioni di Cognens e di emigrati da provenienti da tutta Italia, cuore pulsante della valle prima che il turismo diventasse la prima risorsa economica, venne sfruttato sin dall’antichità.

Il primo documento relativo al sito risale al 1432. Da quell’anno l’attività di estrazione della magnetite è stata praticamente ininterrotta, ma è con l’inizio del 900 che si avvia l’estrazione su scala industriale, con la costruzione di una filiera che va dalla coltivazione del minerale, alla prima lavorazione del grezzo in loco, al trasporto a valle tramite teleferiche e un trenino fino alla trasformazione in acciaio nell’impianto “Cogne”, ad Aosta. Il villaggio minerario di Colonna, a 2500 metri sul livello del mare, abbarbicato alla montagna come un monastero tibetano, ospitava mensa, dormitori, una chiesa e persino un cinema.

È soprattutto nel periodo dell’autarchia che vengono effettuati i maggiori investimenti, con il passaggio dell’impianto dall’Ansaldo allo Stato. La società rimase pubblica sino alla sua dismissione. Le due guerre Mondiali e l‘intervento statale diedero una forte spinta allo sfruttamento della miniera, dove lavoravano centinaia di operai, provenienti non solo da Cogne, ma da tutte le parti d’Italia. Nel 1940 vennero estratte 350 mila tonnellate di minerale e il personale impiegato alle miniere superò le mille unità.

La crisi degli anni 70 portò alla cessazione dell’estrazione. Formalmente la concessione mineraria rimase attiva: per 34 anni, alcuni dipendenti hanno continuato a lavorare in miniera, per tenere in efficienza e sicurezza gli impianti e fare un minimo di manutenzione ma nemmeno un grammo di minerale è stato più estratto da allora.

Nel maggio del 2014 è avvenuto il passaggio di proprietà. A poco più di cento anni dalla nascita della Società Anonima per Azioni Miniere di Cogne, con la definitiva cessazione della concessione mineraria, si è chiuso formalmente il sipario. Fintecna (la società pubblica ultima detentrice della concessione) ha ceduto la proprietà del sito al Comune di Cogne, restituendo in qualche modo alla comunità la proprietà di questo loro pezzo di storia.

La miniera di Cogne e il Comitato Cuore di Ferro: un museo di archeologia industriale a cielo aperto

Salviamo le miniere di Cogne! Firma l’appello di Legambiente

Salviamo le miniere di Cogne! Firma l’appello di Legambiente

La miniera oggi è una bella testimonianza di archeologia industriale, raggiungibile con un trekking di un paio d’ore non

particolarmente impegnativo: sono ben visibili i resti delle teleferiche per il trasporto del materiale, la funivia per i passeggeri e i tanti edifici. Ma le transenne impediscono l’entrata.

Trasformare quell’enorme complesso fatto di gallerie, impianti di trasformazione, teleferiche e piani inclinati, trenini che si inoltrano nella montagna, terrazze con vista su una corona mozzafiato di montagne non sarà facile e richiede massicci investimenti. C’è chi, a Cogne, si batte da anni per questo obiettivo e si dice convinto che per un progetto del genere possano arrivare facilmente i Fondi europei. Si tratta del Comitato Cuore di Ferro, un comitato spontaneo per la Difesa del Bacino minerario di Cogne e della Ferrovia del Drinc, che ha come obiettivo la riconversione in parco minerario, che condurrebbe i visitatori nel villaggio minerario più alto d’Europa, a 2.500 metri, con gallerie e impianti visitabili, un panorama che va dal Monte Bianco al Gran Paradiso, sulle tracce di generazioni di Cognens e di immigrati. Ma nessun progetto è mai andato oltre il pourparler.

Adesso il sito è perfettamente in sicurezza: Fintecna, prima di abbandonarlo definitivamente, ha dovuto mettere in atto una serie di interventi (raccolta acque all’interno della miniera, messa in sicurezza delle vie d’accesso e delle gallerie interne, messa in sicurezza delle zone esterne).

Il Comitato Cuore di Ferro, animato – tra gli altri – da due discendenti di Franz Elter, mitico direttore-partigiano dell’impianto, ha presentato un piano di fattibilità finalizzato alla creazione di un parco minerario dall’enorme potenziale, una via del ferro che da Aosta conduce i visitatori sino alla miniera, rimettendo in funzione il trenino che trasportava il minerale a valle.

Il trenino in questione in realtà è già stato sottoposto a una serie di interventi per essere adibito al trasporto persone, intorno agli anni 90, ma non è mai stato attivato, a causa di una serie di magagne saltate fuori in sede di collaudo. Il direttore dei lavori è stato condannato a risarcire la cifra record di 13 milioni e la Regione ha stabilito che la ferrovia non potrà mai essere attivata, destinandola allo smantellamento. Anche in questo caso, il Comitato Cuore di ferro non ci sta, perché è convinto che il museo minerario abbia senso solo in una logica di sistema, che parta dall’acciaieria di Aosta e arriva sino alla miniera.

Il Comune di Cogne si è impegnato, nel momento in cui ha rilevato la proprietà del sito, di destinarlo ad attività socio-culturali.

La vicenda della miniera è raccontata – oltreché in un piccolo museo ai piedi dell’insediamento, nel villaggio Anselmetti – anche da un film, “Questa miniera”, realizzato dalla regista Valeria Allievi, che racconta il desiderio della comunità di Cogne, dove ogni famiglia ha avuto un minatore in casa, di mantenere saldo il filo della memoria del suo “cuore di ferro”

Questa miniera di Valeria Allievi | Trailer del 61° Trento Film Festival

 

Informazioni: Fondation Grand Paradis
Villaggio Minatori, 11012 Cogne (Ao) – Tel: +39-0165-75301

Sito archeologico industriale:Miniera di magnetite di Cogne
Settore industriale: Industria mineraria
Luogo: Cogne, Aosta, Valle d’Aosta, Italia
Proprietà e Gestione: Comune di Cogne www.comune.cogne.ao.it
Testo a cura di:Silvano Rubino, giornalista – tratto in parte da articoli pubblicati dal Fatto Quotidiano
Crediti fotografici: Silvano Rubino




Riusiamo l’Italia : da spazi vuoti a startup culturali e sociali

“Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a start-up culturali e sociali” di Giovanni Campagnoli e postfazione a cura di Roberto Tognetti ci parla della possibilità concreta di riutilizzare gli spazi vuoti nel nostro paese per generare valore culturale e sociale.

Per la prima volta i territori vivono un fenomeno nuovo, quello di trovarsi “pieni di vuoti”: significa cioè che sono diventati molti luoghi abbandonati quali ex-scuole, caserme, fabbriche e capannoni industriali dismessi, cinema chiusi, stazioni, negozi, abitazioni,, uffici vuoti, così come gli spazi finiti e mai aperti… Tutti questi luoghi non abitati dalle persone pongono la questione di individuare nuove funzioni d’uso (anche temporanee) e nuove progettazioni.
La sfida è ricercare le condizioni affinché questi spazi tornino ad essere luoghi significativi per la comunità locale, per fare occasione di sviluppo a partire dai giovani.

Riusiamo l’Italia approfondisce le condizioni facilitanti la gestione di questi luoghi da parte di “startup culturali e sociali” in grado di generare risorse autonomamente al fine dell’equilibrio economico.

I contenuti del libro Riusiamo l’Italia permettono di acquisire conoscenze per l’avvio e la gestione delle startup quali imprese culturali, sociali giovanili che abbiano anche un ritorno (etico) sul capitale investito. Nel testo viene quindi illustrato anche come raccogliere il capitale necessario. Oltre a ciò, tre capitoli sono dedicati alla descrizione dei processi organizzativi che possono portare alla gestione efficace ed efficiente di queste startup.

Il sito www.riusiamolitalia.it affianca il testo per promuoverne le tematiche e raccogliere esperienze di chi sta già lavorando su questi argomenti

Giovanni CAMPAGNOLI

Giovanni Campagnoli lavora in spazi ‘non convenzionali’ di incubazione di start up giovanili innovative, a vocazione creativa, sociale, culturale e di sviluppo locale. Docente di economia dai Salesiani, bocconiano, si occupa di ricerca come direttore e blogger della Rete Informativa Politichegiovanili.it e su questi temi opera anche come consulente e formatore per Enti Pubblici e Organizzazioni No Profit. Lavora a Enne3network ed in Vedogiovane.

Roberto TOGNETTI

Architetto novarese, si laurea con lode nel 1986 con Franca Helg. Negli anni successivi si specializza in ‘Museografia e Museologia’ ed è docente di Architettura d’Interni allo IED di Milano. Lavora presso studi e società d’ingegneria milanesi (Austin Italia Spa, Studio G14 Progettazione) e fonda poi a Novara nel 1990, lo Studio associato architetti FGMT. Negli ultimi vent’anni si occupa però prevalentemente di sviluppo locale attraverso l’ideazione e la conduzione di progetti e piani di azione locale in svariati territori italiani ed europei. Nel 2008 fonda con Giovanni Alifredi Federico Morchio e Gianpiero Oliva iperPIANO che ha costituito il Centro studi horrorVACUI.

Per saperne di più su Il Giornale dell’Arte – Arte e Imprese sezione Spazi Mutanti Spazi Mutati intervista a Giovanni Campagnoli

Acquista online Riusiamo l'Italia

Titolo: Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a start-up culturali e sociali
Autore: Giovanni Campagnoli – postfazione a cura di Roberto Tognetti
Casa Editrice: Il Sole 24 Ore
ISBN:978-88-6435-578-6
Lingua: Italiano




Il Villaggio Eni di Borca di Cadore in Veneto | Progetto Borca di Dolomiti Contemporanee

Il Villaggio Eni di Borca di Cadore ai piedi del monte Antelao nelle Dolomiti bellunesi nasce per volontà di Enrico Mattei, presidente Eni, agli inizi degli anni ’50 su progetto dell’architetto Edoardo Gellner.

 

Il Villaggio Eni nasce come villaggio turistico per ospitare esclusivamente i dipendenti dell’Eni ad ognuno dei quali, perseguendo la visione di Mattei, spettava la possibilità di soggiornarvi. Elevati standard architettonici, servizi accessibili a tutti, nessuna distinzione gerarchica (le villette venivano assegnate tramite sorteggio) gli conferiscono il nome di “Villaggio Sociale ENI”

VIDEO: Un villaggio per le vacanze – G. Taffarel, 1963, video promo

Il Villaggio Eni di Borca di Cadore, che  si estende su un’area boschiva di circa 130 ettari per un totale di 100.000 mq edificati, caratterizzato da un’ottima esposizione solare e da logisticamente strategico (la famosa località di Cortina d’Ampezzo dista appena 15 km) è  costituito da diverse strutture:

La Colonia , costruita tra il 1955 ed il 1962 per ospitare 600 bambini,  per via della conformazione del terreno, non è costituita da un corpo unico bensì da 17 edifici uniti fra loro da un sistema di collegamenti a rampe coperte che gravitano attorno al grande padiglione centrale.

La Chiesa Nostra Signora del Cadore, iniziata nel 1956 e consacrata nel 1961, vanta della collaborazione di Carlo Scarpa, maestro nell’utilizzo del cemento armato e dell’acciaio. Fulcro dell’intero progetto, essa si colloca su un’altura raggiungibile mediante rampe coperte. Le sue linee verticali, le ampie vetrate sulle falde del tetto a doppi spioventi e l’alta guglia in acciaio ne fanno della Chiesa Nostra signora del Cadore un gioiello dell’architettura sacra contemporanea.

L’Albergo Boite ed il residence Corte, terminati nel 1962, rappresentano solo una parte delle strutture destinate a servizi per gli ospiti della località progettati da  Gellner poi però incompiuti. Il residence era destinato ad accogliere il personale di servizio, mentre l’albergo era costituito da 78 camere distribuite su 6 livelli, cemento e legno i materiali utilizzati per la struttura, rame e pietra per la copertura. Le stanze luminose dotate di terrazzo sono anch’esse caratterizzate da un design elegante e funzionale.

Il Campeggio a tende fisse, ovvero capanne in legno, realizzato tra il 1958 ed il 1961 per ospitare 200 ragazzi.

280 Villette monofamiliari. Originariamente previste in numero doppio,  le villette con tetto a falda unica, sono progettate su piattaforme a mo’ di palafitte che lasciano il piano terra, fortemente inclinato, libero a vista e utilizzabile così  come autorimessa. Le villette, sparse nel bosco, sono pensate per al tempo stesso garantire la privacy familiare e consentire momenti di aggregazione.

Oltre ai servizi satellite realizzati tra  il 1956 ed il 1957,

La firma di Gellner è apposta su ogni singolo aspetto del Villaggio Eni di Borca di Cadore: dall’urbanistica la design  dalla sistemazione delle strade, alla piantumazione degli alberi, al progettazione degli arredi.

Poco dopo la tragica scomparsa di Enrico Mattei (27 ottobre 1962) la realizzazione del villaggio venne interrotta e nonostante successive aperture per un completamento del centro servizi che portano Gellner a elaborare sei progetti tra il 1974 e il 1990, i lavori del Villaggio Eni di Borca di Cadore non ripresero  più.

Dolomiti Contemporanee e il Progetto Borca  per la valorizzazione del Villaggio Eni di Borca di Cadore

Dal 2000, il VillaggioEni di Borca di Cadore  è proprietà del Gruppo Minoter-Cualbu, con cui Dolomiti Contemporanee ha iniziato nel 2014 una collaborazione, sulla base di un progetto di valorizzazione culturale e funzionale dell’insediamento, denominato Progetto Borca.

Oggi infatti, alcune delle strutture del Villaggio (la Colonia in particolare) sono defunzionalizzate, ed è necessario trovare per esse una nuova destinazione d’uso sostenibile, pena l’abbandono ed il degrado di quest’architettura sorprendente e dal potenziale intatto.

In generale, oltre alla Colonia, diverse altre strutture del complesso risultano  oggi sottoutilizzate.
Progetto Borca, inaugurato a luglio 2014, è una piattaforma culturale e strategica che opera al ripensamento e alla rigenerazione del sito nel suo complesso.

L’arte contemporanea è uno dei metodi attraverso cui si è avviato questo processo di ridefinizione funzionale dell’identità del sito. Una Residenza internazionale è ora attiva nel Villaggio, nel quale gli artisti vivono e lavorano.

Per maggiori informazioni sul Progettoborca, programmi e calendari visitate www.progettoborca.net

VIdeo: progettoborca – early glimpses

Sito archeologico industriale:Villaggio Eni di Borca di Cadore
Settore industriale: Villaggio turistico per i dipendenti Eni
Luogo: Borca di Cadore, Belluno, Veneto, Italia
Proprietà e Gestione: Gruppo Minoter-Cualbu
Testo a cura di:per la parte storica Archivio Storico Eni Roma – per il Progetto Borca Dolomiti Contemporanee www.dolomiticontemporanee.net
Crediti fotografici: per le immagini storiche si ringrazia l’Archivio Storico Eni Roma – per le immagini del Villaggio Eni oggi si ringrazia Giacomo De Dona¦Ç2




Il Setificio di Tomioka in Giappone – Patrimonio UNESCO

Il Setificio di Tomioka, nella prefettura di Gunma, a nord-ovest di Tokio, è uno dei più begli esempi di archeologia industriale in Giappone

 

Il Setificio di Tomioka fu costruito dal governo nel tentativo di modernizzare l’industria della seta in Giappone nel 1872, a soli 4 anni dalla Restaurazione Meiji.

Il Setificio era un complesso di fabbrica a larga scala incentrata sul procedimento di lavorazione del filo da seta voluto dal governo Meiji per consentire la produzione in serie di seta grezza di alta qualità. Nel XIX secolo infatti, a seguito dell’apertura del Giappone verso l’Occidente, la domanda di esportazione di seta grezza cominciava a crescere, ma, poiché essa era prodotta artigianalmente, non si era in grado di soddisfare tale domanda.

Il governo decise allora di assumere ingegneri francesi per fondare la fabbrica ed introdurre le tecnologie meccaniche più avanzate per il procedimento di trattura e filatura della seta. Il Setificio di Tomioka ebbe un ruolo importante come modello di fabbrica per diffondere la moderna tecnologia per la trattura della seta in tutto il paese. Il governo reclutò le donne come forza lavoro ed insegnò loro le nuove tecnica in modo da poter diventare leader in quest’attività.

Anche dopo esser stato venduto al settore privato nel 1893, il setificio ha continuato la sua attività mantenendo la propria leadership nella produzione di seta grezza in Giappone fino al 1987. L’attività cesso infine a causa della concorrenza della più economica seta grezza importata da altri paesi asiatici.

Il complesso industriale è formato da diversi edifici storici e strutture. I principali edifici originali sono l’impianto per la trattura della seta, i due magazzini per la produzione di bozzoli, sale macchine, la casa del direttore ed i dormitori per gli ingegneri francesi costruiti nel 1872 e 1873. Si tratta di costruzione di mattoni in legno e muratura, una tecnica introdotta dagli ingegneri francesi.

Dal 2005, il Setificio di Tomioka è stato gestito dalla città ed è stato aperto al pubblico. La fabbrica è un simbolo della modernizzazione dell’industria della seta in Giappone, per questa ragione è conservata come esempio importante del patrimonio industriale.

Dal mese di giugno 2014, Il Setificio di Tomioka è stato iscritto nella UNESCO World Heritage List come “Tomioka Silk Mill and Related Sites””. Questo pezzo del patrimonio mondiale è valutato per il suo contributo allo sviluppo e gli scambi internazionali nel campo della tecnologia della sericoltura e della filatura. Oggi tante persone visitano Il Setificio di Tomioka ogni giorno.

Sito archeologico industriale:Setificio di Tomioka
Settore industriale: Industria tessile
Luogo: Tomioka City, prefettura di Gunma, Giappone
Proprietà e Gestione: Tomioka City
Testo a cura di:
The Tomioka Silk Mill department, Tomioka City email worldheritage@city.tomioka.lg.jp