Il Cotonificio Amman di Pordenone, da fabbrica dismessa a polo culturale. Una proposta di recupero

L’ex Cotonificio Amman-Wepfer di Pordenone è stato per circa un secolo il più grande opificio cotoniero presente in provincia di Pordenone.

Cotonificio Amman

Anno 1913: acquarello di L. Parolini_fonte: Archivio privato famiglia Amman – Ello (Lecco)

Lo stabilimento ha di fatto cambiato la storia del capoluogo friulano, in quanto le opportunità lavorative offerte hanno determinato una importante crescita demografica ed economica della città e del suo hinterland.

La nascita del complesso risale al 1875, periodo in cui il territorio pordenonese era stato da poco riannesso al Regno d’Italia. Sorto come piccolo opificio, dopo quello sito nella frazione di Torre del 1840, negli anni a seguire aumentò le proprie dimensioni e introdusse rilevanti innovazioni tecnologiche fino a raggiungere un livello d’importanza tale che la stessa città veniva citata come la “Manchester del Friuli‘‘.

Oggi l’ex complesso cotoniero versa in un grave stato di abbandono. Recentemente la proprietà è stata acquisita da un gruppo di investitori veneti sui quali si ripongono le speranze per un suo recupero, che valorizzi adeguatamente la storia del sito e ridia allo stesso lo splendore che si merita quale uno dei principali simboli identitari della città.

Pordenone e l’industrializzazione italiana

La progressione storica dell’industria pordenonese ha contribuito al processo di promozione dell’Italia dalla periferia al centro dell’economia mondiale. Ciò si rileva meglio se si rapporta in particolare la grandezza dell’industria tessile pordenonese a quella nazionale.

Si consideri che quando venne fondata la filiera produttiva filatura-tintoria-tessitura, fra Torre e Rorai Grande, Pordenone si inseriva come caso singolare nel panorama dell’industria cotoniera lombardo-veneta. Per esempio, nel 1857, le 32 filature lombarde disponevano in media di 3800 fusi circa, mentre l’impresa di Torre ne disponeva dieci mila. Nel 1861, nell’unico cotonificio di Pordenone allora esistente, si lavoravano ventimila fusi, mentre in Italia nel settore cotoniero se ne censivano complessivamente circa 400 o 450 mila. Attorno al 1880, dopo la realizzazione del Cotonificio Amman-Wepfer, nei due cotonifici pordenonesi i fusi erano raddoppiati, mentre in tutta Italia se ne contavano 750 mila.

Il capitale forestiero dette impulso al settore trainante del tessile avendo cura di inserire gli stabilimenti nel paesaggio circostante con una collocazione che consentirà agli stessi di sfruttare in modo migliore i salti delle acque canalizzate e che manterranno anche con l’introduzione delle turbine e poi dell’energia idroelettrica.

I quattro impianti (Pordenone, Rorai, Torre, Cordenons) che costituivano la filiera produttiva filatura-tintoria-tessitura sono individuabili ai margini dei centri abitati e le loro ciminiere marcano il profilo della città insieme con i campanili.

La realizzazione di cotonifici produsse cambiamenti a tratti del paesaggio, prima di tutto con le opere di sistemazione idraulica poi con la presenza della stessa mole degli edifici. La crescita degli abitanti da essi indotta infatti portò all’espansione di Pordenone e delle sue frazioni.

Ex Cotonificio Amman-Wepfer: storia dell’ex manufatto industriale

La costruzione del cotonificio A. Amman & Wepfer, avviene nel 1875. A differenza di altri presenti sul territorio si presenta come una fabbrica molto proiettata in avanti per idee, invenzioni e gli stessi macchinari che vi verranno introdotti, facendone il cotonificio più studiato del Friuli grazie alle sue peculiarità estetiche e strutturali.

In materia innovativa, infatti, si svilupperà tutto in orizzontale: solo piano terra, per favorire il movimento dei materiali, agevolarne la gestione e ridurre anche le conseguenze di eventuali incendi.

Gli ampi capannoni vengono illuminati dall’alto, sfruttando la luce naturale. Per questo motivo le coperture sono costituite da una sequenza di piccoli e lunghi tetti a capanna (shed), a due falde simmetriche, la falda rivolta a nord è in buona parte finestrata per dare luogo ad un’ottima illuminazione senza sole diretto.

I capitali investiti erano di Alberto Amman, nato a Monza ma di famiglia austriaca, proprietario di altri cotonifici in Lombardia, e di Emilio Wepfer di famiglia cotoniera svizzera ma nato a Angri nel salernitano.

I motivi principali che determinarono la scelta di collocare il cotonificio a Pordenone furono: disponibilità di energia idraulica quasi gratuita, manodopera a basso costo e senza pretese, possibilità di buoni collegamenti per i trasporti: fiume Noncello, ferrovia e strada.

Il luogo scelto fu quello delle ‘’Melosette’’, vicino a Borgo Meduna, alla periferia di Pordenone, in una zona bassa e paludosa ma in cui poteva sfruttarsi un buon salto d’acqua.

La forza motrice per le macchine della prima filatura inizialmente era ottenuta con una turbina idraulica posta a lato del complesso, alimentata dal “canale della filatura” derivata dal fiume Noncello. Dieci anni dopo l’insediamento del cotonificio, viene trasformato il movimento dei macchinari da meccanico ad elettrico e altri canali artificiali vengono costruiti per sfruttare i “salti d’acqua”. La fabbrica raggiunge una importante espansione produttiva.

Il processo è complesso: si acquista cotone grezzo e vengono venduti filati e tessuto finito. Sono lavorati sul posto anche i cascami per farne ovatta.

Nel tempo il complesso si evolve anche dal punto di vista architettonico con una vera e propria architettura pensata e curata nei dettagli, anche attraverso un uso elegante di materiali tradizionali quali mattoni e ghisa.

Dopo la grande esondazione del Noncello, del 1966, il grosso della produzione cesserà e nel 1999 lo stabilimento e l’azienda si sposterà a Travesio (PN), Comune della pedemontana pordenonese. Ad oggi rimane in funzione solo la centrale elettrica.

Cotonificio Amman di Pordenone. Da fabbrica dismessa a polo culturale. Proposta di recupero

Il progetto proposto è finalizzato alla creazione di un polo culturale per il territorio di riferimento previo recupero e valorizzazione del sito in funzione di detta destinazione d’uso.

L’Arch. Filippo Enna si fa carico di offrire soluzioni affinché un complesso manifatturiero, oggi degradato e sommerso da una vegetazione incontrollata, torni a rappresentare un fiore all’occhiello per la comunità pordenonese, capace di rispondere alle pressanti esigenze di ampliamento del vicino Consorzio Universitario, distante solo poche centinaia di metri, nella frazione di Borgomeduna.

E’ avvertita l’esigenza di un rilancio e di un nuovo sviluppo della presenza universitaria a Pordenone. C’è infatti la volontà di offrire ulteriori corsi di laurea più vicini alle esigenze delle aziende e alle necessità di sviluppo del territorio e che riguarderanno nuovi trend di sviluppo quali sostenibilità, digitale e energie rinnovabili. Con il progetto proposto si coglie l’obiettivo di unire cultura e storia, rendendo fruibile per le nuove generazioni di studenti un patrimonio che per i loro stessi avi ha rappresentato importante fonte di lavoro e crescita sociale.

Testimonianza di un legame storico che continua e stimolo per una positiva evoluzione culturale e occupazionale.

Inglobata l’area interessata al contesto urbano, attraverso il suo risanamento, l’interesse del progetto è rivolto al recupero degli edifici storici integri, in particolare quelli che presentano una coerenza architettonica al progetto originario, compreso il ripristino dei canali d’acqua che un tempo attraversavano il complesso e alimentavano i macchinari tessili. La visione generale del progetto di recupero è conservativa dei manufatti esistenti, tranne delle superfetazioni che nel tempo erano state realizzate; queste ultime verrebbero eliminate, mentre delle aggiunte sarebbero eseguite dove un tempo erano presenti, ma con uno stile architettonico contemporaneo, in maniera tale da restituire agli edifici interessati l’immagine del passato, anche dal punto di vista volumetrico, ma dando la possibilità all’osservatore di dare una lettura più completa rilevando quella che era la vecchia architettura, senza però creare un falso storico.

Caratteristiche identitarie e volumi degli edifici storici del complesso vengono rivisti in relazione alle nuove destinazioni d’uso.

Così nell’ex filatura bassa, con la sua storica facciata, vengono realizzate le unità abitative degli studenti universitari, sfruttando il disegno compositivo caratteristico delle vecchie colonnine in ghisa, anch’esse recuperate. Colonnine che vengono recuperate anche in altri ambienti per creare delle corti o per segnare singolari camminamenti coperti da pergolati.

La volumetria della torre d’ingresso con l’orologio e dei capannoni che un tempo ospitavano uffici e officine per le macchine tessili e magazzini vengono sfruttate per i nuovi uffici universitari, aule e una biblioteca soppalcata.

Spazi più importanti, come quelli dell’ex deposito del cotone sodo, vengono utilizzati per la creazione di sale congressi, sala ristorazione e altre polivalenti.

Una parte denominata ‘’lungo fiume’’, consistente in un camminamento sopraelevato che costeggia la parte del fiume Noncello rettificato tramite canale, si distingue per essere composta da due passerelle che permettono di collegare l’ex complesso Amman, da una parte con Via Santi Martiri Concordiesi, dall’altra con il Parco del Seminario. La stessa si caratterizza anche per una piazza-spazio polivalente, che si sviluppa a gradoni in corrispondenza della curva del canale.

L’ex centrale termica destinata a spazio mostre, su due livelli.

La ciminiera diventa il Landmark del complesso. Il fumaiolo, in mattoni, era stato privato di cinque metri della sua altezza iniziale dopo il terremoto del Friuli, nel 1976. Viene restituita l’immagine che aveva un tempo, ma con un materiale diverso, il vetro. Al suo interno è posto un ascensore vetrato di forma cilindrica predisposto per interventi di questo genere, che consente di raggiungere la cima e godere del panorama circostante.

Un progetto quindi che mira, soprattutto, al recupero della memoria storica, ma nel contempo guarda anche al futuro e all’utilizzo di nuove tecnologie e materiali che rispettino le preesistenze, quindi inserendosi in modo ‘’gentile’’, ma distinto, nel complesso architettonico esistente.

Sito archeologico industriale: Cotonificio Amman-Wepfer di Pordenone
Settore industriale: Settore tessile
Luogo: provincia di Pordenone – Regione Friuli Venezia Giulia
Proprietà/gestione: Privata
Testo a cura di: Arch. Filippo Enna – contatto: filippoennaarchitetto@gmail.com. Tratto dalla tesi di laurea ‘’Cotonificio Amman di Pordenone. Da fabbrica dismessa a polo culturale. Proposta di recupero’’ di Filippo Enna. Politecnico di Torino – Torino. Anno accademico 2020-2021. Relatore Prof. Daniele Regis, Correlatori: Prof.ssa Cristina Coscia, Arch. Roberto Olivero.

 

PREMI E SEGNALAZIONI
TESI MERITORIA 2021 – Torino – tesi valutata dalla Commissione di laurea ‘’meritevole di pubblicazione’’.
PREMIO DI LAUREA AGNESE GHINI 2021 – Parma – tesi ritenuta meritevole di segnalazione per le tematiche legate alla riqualificazione socio-ambientale degli spazi marginali.
PREMIO DI LAUREA ARCH. MICHELE BERARDO 2022 – Torino – tesi risultata vincitrice del premio per il progetto di conservazione e valorizzazione del patrimonio architettonico.




L’archivio storico Enel va online: la storia dell’energia da scoprire in un click

Enel lancia il suo archivio storico digitale: online su archiviostorico.enel.com migliaia di documenti, fotografie, filmati, disegni tecnici, libri, riviste che raccontano la nascita e lo sviluppo dell’industria dell’energia elettrica. Un viaggio nel tempo alla scoperta dell’energia, dei personaggi che ne hanno fatto la storia, così come dei progressi tecnologici e industriali di un mercato in continua evoluzione.

Larderello (foto storica, image courtesy of Enel)

Tramite il sito si accede a oltre 14mila fotografie, dalle più recenti scattate negli impianti di Enel in Italia e nel mondo, a quelle di alto valore documentale tratte dai fondi storici. Tra queste, ampio spazio anche alla geotermia e a Larderello che vantano una storia secolare ricca di fascino, tra cultura ed energia, tra storia e attualità: oltre mille scatti geotermici sono disponibili online, nonché video e documenti storici. Si tratta di materiale che ovviamente si aggiunge a quello, molto più numeroso, presente presso il Museo della Geotermia visitabile con tutte le misure di sicurezza a Larderello, presso il Palazzo De Larderel in piazza Leopolda 1.

Con questa azione l’azienda digitalizza gran parte del proprio patrimonio archivistico mettendolo a disposizione di tutti: cittadini, ricercatori, imprese, pubbliche amministrazioni per ripercorrere insieme la storia dell’energia in Italia coinvolgendo anche le nuove generazioni. Il materiale presente nell’archivio è organizzato secondo un percorso narrativo che si articola in quattro aree tematiche: Rinnovabili, Elettrificazione, Persone e Digitalizzazione e privilegia la dimensione della scoperta.

Attraverso storie che uniscono con un unico filo conduttore presente e passato vengono così raccontati i momenti storici salienti che hanno scandito la vita dell’azienda e dei suoi protagonisti, ma anche le piccole curiosità, nonché i valori che hanno ispirato l’azione e le strategie di business del Gruppo.

Larderello (foto storica, image courtesy of Enel)

Si possono ad esempio visionare le istantanee del fondo Giulio Parisio, fotografo e artista napoletano della prima metà del secolo scorso, che con le sue 2500 foto ha documentato l’elettrificazione del Mezzogiorno. È possibile, inoltre, consultare tutto il materiale visivo del fondo Lardello, dove sono raccolti scatti dello studio dei Fratelli Alinari che offrono uno spaccato dell’evoluzione industriale dell’area geotermica toscana, dalla produzione chimica dei borati nell’Ottocento alla generazione di energia elettrica.

L’Archivio storico digitale Enel include documenti e reperti fotografici e audiovisivi, realizzati a partire dalla metà dell’Ottocento fino ai giorni nostri, delle oltre 1200 società elettriche attive in tutta Italia e poi confluite, con la nazionalizzazione del 1962, in Enel. Un patrimonio che, oltre a delineare le origini dell’industria elettrica in Italia, documenta l’impegno dell’azienda per l’elettrificazione dell’intero territorio nazionale e per lo sviluppo industriale del Paese.

Tra il materiale disponibile all’interno dell’archivio digitale Enel spiccano gli 800 filmati, girati dai primi del ‘900 ai giorni nostri, che comprendono produzioni realizzate dall’Istituto Luce e documentari firmati, tra gli altri, da celebri registi come Ermanno Olmi. Oltre a questi, sono fruibili online 130mila documenti della storia di Enel e della storia dell’elettricità nel nostro Paese.

La realizzazione dell’archivio digitale Enel si inserisce nel più ampio percorso avviato da Enel per rendere pienamente accessibile e fruibile il proprio patrimonio documentale.

Un percorso iniziato con l’apertura e poi riqualificazione dell’Archivio storico della sede di Napoli. Qui sono attualmente custoditi più di 13mila metri lineari di documenti, 200mila fotografie, migliaia di disegni tecnici, libri e riviste specializzate, strumentazioni d’epoca oltre a centinaia di reperti e filmati testimonianza della storia dell’industria elettrica italiana. Una documentazione che è stata riconosciuta dalla Soprintendenza Archivistica per il Lazio di “notevole interesse storico” e “fonte di valore unico e di incommensurabile interesse per la storia dell’energia elettrica e per la storia economica nazionale ed internazionale dagli inizi del secolo scorso in poi”.




La cravatta Marinella festeggia i suoi 105 anni nel segno dell’eleganza Made in Italy

Cravatta Marinella: la sartoria napoletana incontra il british style

Quel piccolo spazio di venti metri quadri sulla Riviera di Chiaia che, da oltre cent’anni, coniuga la sapienza della sartoria napoletana con il british style diventando simbolo dell’eleganza Made in Italy nel mondo.

 

Stiamo entrando nel cuore di E. Marinella, la storica impresa familiare produttrice di raffinate cravatte scelte dagli uomini appartenenti agli ambienti sociali più esclusivi di tutti i Paesi. È la storia del sogno di una mente imprenditoriale dal DNA partenopeo che ha modellato la vita di quattro generazioni. Da Eugenio a Luigi (detto Gino), da Gino a Maurizio, sino ad arrivare ad Alessandro, il futuro già presente che porterà avanti l’azienda sino a quando sarà, per consegnarla poi, ci piace immaginare, a un nuovo membro della famiglia.

Marinella: l’impresa familiare nata da un sogno

“Portare un angolo di Inghilterra a Napoli”, era questo il sogno che, nel 1914, spinse Eugenio Marinella ad aprire il negozio che porterà il suo stesso nome in uno dei luoghi di ritrovo della danarosa aristocrazia napoletana: Piazza Vittoria, davanti a dove allora si trovava il galoppatoio. Don Eugenio (così era chiamato), con alle spalle già un’esperienze nel commercio di abbigliamento, voleva portare l’eleganza inglese nei salotti bene della città e, per raggiungere il suo obiettivo, partì verso l’Inghilterra per scegliere in prima persona i migliori fornitori di seta.

Camicie e cravatte su misura di altissima qualità, erano questi i due capi di abbigliamento sui quali venne indirizzata la produzione. Eugenio riuscì anche a convincere alcuni esperti camiciai di Parigi a trasferirsi a Napoli per lavorare per lui. Tuttavia, se fino agli anni ’70 il core business era rappresentato dalle camicie, in quegli anni avviene un’inversione di tendenza e le cravatte diventano il prodotto di punta della E. Marinella.

Nel 1968 Eugenio muore e Gino gli succede nella gestione dell’attività. Ma è quando Maurizio, figlio di Gino, prende le redini dell’azienda che avviene il grande salto. Maurizio è intraprendente, dai gusti originali, laureato in Economia e Commercio e inizialmente recalcitrante a seguire un percorso professionale già prestabilito; in lui matura l’idea che per crescere bisognava aprirsi oltre i confini della città recandosi di persona a casa dei clienti. Maurizio incontra da Pietro Barilla a Parma all’On. Giulio Andreotti a Roma. E mentre il passa parola fa il suo lavoro, l’azienda decolla.

Cravatta Marinella, un simbolo del Made in Italy nel mondo

Oggi, il laboratorio sartoriale, a due passi dal negozio, realizza 150 cravatte al giorno scegliendo tra le 14000 fantasie diverse a disposizione. Ogni cravatta E. Marinella viene realizzata a mano, una per una, trasformando i pregiati tessuti inglesi in una piccola opera d’arte. Ogni passaggio viene eseguito e curato in ogni minimo particolare: dal taglio del tessuto alla stiratura, dalla fodera alla cucitura, fino all’arrivo nei cassetti dei negozi di tutto il mondo. 

Infatti, negli ultimi vent’anni, allo storico negozio E. Marinella alla Riviera di Chiaia, si sono affiancati ben sei  punti vendita monomarca: due a Milano, uno a Roma, due a Tokyo e uno a Londra, e diversi corner shop delle più importanti città del mondo, da Parigi a New York da Shangai a Ginevra, vetrine dell’eleganza Made in Italy dove poter acquistare sia una cravatta già pronta, sia una cravatta su misura, scegliendo tra i numerosi square proposti dal marchio.

Marinella non è però solo cravatte: un’ampia gamma di accessori, che vanno dalla piccola pelletteria, alla valigeria, dagli orologi ai gemelli, senza dimenticare i profumi, le borse e i foulard soddisfano le esigenze e i gusti di una clientela sempre più numerosa e non più unicamente maschile. 

Cravatta Marinella: una piccola opera d’arte da indossare

L’esclusività della produzione ha trasformato le cravatte Marinella in un vero e proprio oggetto di culto, tanto da far loro meritare un posto all’interno dell’esposizione realizzata nel 2017 al Moma di New York dal titolo Items: is fashion modern? Una ricognizione degli accessori e dei capi più iconici della moda.

Inoltre, per chi desiderasse vivere coi proprio occhi l’esperienza del marchio, all’interno dello storico negozio di Napoli è possibile visitare un piccolo spazio espositivo dedicato alla cravatta Marinella.

Chi ha indossato la cravatta Marinella: clienti famosi

Tanti i personaggi illustri che hanno portato al collo una cravatta Marinella: dai rappresentanti della politica internazionale, al gotha della nobiltà internazionale, ai divi di Hollywood. Il presidente Francesco Cossiga usava regalare ai Capi di Stato che incontrava un cofanetto di sei cravatte, Bill Clinton, i Bush (padre e figlio), Putin, Koll, Mitterand, Chirac, Sarkozy,  Juan Carlos di Borbone, Carlo d’Inghilterra, Ranieri di Monaco e suo figlio Alberto: sono solo alcuni dei nomi che hanno indossato le esclusive cravatte artigianali napoletane.

Alessandro Marinella:  l’azienda storica guarda verso il futuro

Maurizio Marinella però non è solo nella gestione dell’impresa familiare, lo affianca il figlio Alessandro, che si sta impegnando nel dare alla maison un respiro più giovane e digital, nel rispetto dei valori e della tradizione familiare.

Conto di dare il mio contributo alla Marinella – dice Alessandro – così come è stato fatto dalle generazioni precedenti. Mi impegnerò a preservare l’alta qualità dei nostri prodotti e i valori che da sempre ci contraddistinguono, cercando di dare un messaggio anche ai giovani della mia generazione; perché classicità eleganza sono sinonimo di personalità e non di rigidità.” E prosegue:  “Grazie a quanto costruito dal mio Bisnonno, da mio Nonno e da mio Padre, sono pronto ad affrontare il futuro. Con gli insegnamenti del passato, traghetterò la Marinella verso un nuovo secolo, parlando un linguaggio attuale che accolga anche le richieste e i desideri dei giovani come me.”

Marinella festeggia i suoi 105 anni di attività a Pitti Uomo 96

Il 12 giugno 2019, in occasione di Pitti Uomo, la kermess fiorentina dedicata alla moda maschile, E. Marinella, festeggia i suoi 105 anni di attività.

Con un happening alla Limonaia Giardino Corsini, l’azienda ripercorre più di un secolo di eleganza attraverso i suoi tessuti, le sue celebri cravatte e i suoi accessori, narrando l’evoluzione di uno stile che da sempre si è distinto per raffinatezza e qualità delle materie prime. Passato, presente e futuro s’incontrano dando vita a tre creazioni inedite: una limited edition che partendo da una solida tradizione si distingue per ricerca e innovazione.

Il futuro rappresenta infatti una tappa fondamentale per il Brand Marinella che, seppur ancorato alle proprie radici e ai propri valori, è in grado di reinterpretare giorno dopo giorno la sua immagine in una chiave moderna e contemporanea. A questo proposito, Pitti Immagine Uomo si rivela un prestigioso palcoscenico per ricordare i momenti salienti di un marchio in continua evoluzione.




Il Linificio e Canapificio Nazionale e l’industria canapiera di Frattamaggiore

Archeologia industriale a Frattamaggiore: l’industria canapiera

L’architettura industriale di Frattamaggiore, fin dall’Ottocento, segna lo sviluppo economico ed urbanistico della città definendo la rete di trasporti, la distribuzione delle residenze e destinazione d’uso del suolo.

Si delineava un rinnovamento tipologico dell’architettura industriale ed emergeva il dibattito sui temi dell’igiene, razionalizzazione della produzione, aggiornamento dei materiali da costruzione e sull’estetica degli edifici industriali1. Le architetture industriali d’inizio Novecento, a differenza di quelle del periodo preunitario, superavano il modello a sviluppo verticale multipiano e si affermava quello a sviluppo orizzontale con copertura a Shed2,  inoltre, l’utilizzo del cemento armato consentiva rapidità di costruzione e libertà compositiva dal punto di vista architettonico.

Tale modello si diffuse in tutta la penisola ed anche nei centri minori come quello di Frattamaggiore, comune prossimo a Napoli noto fin dalla sua fondazione, in epoca romana3, per la lavorazione della canapa. In origine, una prima e rudimentale lavorazione artigianale si svolgeva presso le proprie abitazioni, dove abili e specializzate operaie si dedicavano al ramo dell’arte tessile ed in ampi piazzali, si trasformava la canapa in funi.

Successivamente con l’industria della canapa, si giunse ad esportare i prodotti in tutta Europa e Sud America, dando dimostrazione dell’operosità e maestria che nei secoli avrebbe caratterizzato gli abitanti di Frattamaggiore4.

Lo Stabilimento di Frattamaggiore: Il Linificio e Canapificio Nazionale

Il Linificio e Canapificio Nazionale di Frattamaggiore: la storia

Nel 1906 un gruppo d’imprenditori frattesi costituiva la Società Canapificio Napoletano e nel 1909 lo stabilimento di Frattamaggiore era già in piena attività con oltre 5000 fusi.

Nel 1920 veniva acquisito dal Linificio e Canapificio Nazionale fondato nel 1873 dal Dott. Andrea Ponti che contava 21 stabilimenti ubicati principalmente al Nord e costituiva l’unico grande impianto del Mezzogiorno d’Italia5.

Il Linificio e Canapificio Nazionale di Frattamaggiore: l’architettura

Lo stabilimento frattese adotta anch’esso il modello architettonico a sviluppo orizzontale e la copertura a Shed per i locali di produzione mentre l’edificio adibito ad uffici è ubicato su un angolo della proprietà, prospiciente Piazza Crispino, disposto su tre lati, si eleva per due piani fuori terra e termina con una copertura a padiglione.

Superato l’ingresso, su Via Vittorio Emanuele III, a destra è tuttora ubicato il locale caldaia avente copertura a falda con integrato un lucernario centrale ed adiacente all’alta canna fumaria. Attiguo vi è il locale principale adibito alla lavorazione della canapa e l’edificio oblungo con copertura a padiglione ed in parte voltato, adibito ad alloggi per operai.

Il Linificio e Canapificio Nazionale di Frattamaggiore: i macchinari

Nell’azienda furono introdotti macchinari altamente tecnologici per l’epoca, come quelli della Ditta Ercole Marelli con motore Mac, azionati con energia di tipo termoelettrico e raggiungevano in media 1000 HP di forza motrice.

Il Linificio e Canapificio Nazionale di Frattamaggiore: gli anni d’oro

Successivamente, considerata la grande quantità di commesse, furono costruiti due grandi locali con struttura in cemento armato per soddisfare le richieste dei committenti ed altri locali a Nord del locale principale.

Per assicurare il servizio d’igiene e di sicurezza antincendio, fu eretto un serbatoio alto 22 metri, capace di 50 m3 d’acqua ed erano delocalizzati in altri opifici, i piccoli reparti di candeggio e cordette lucide, la cui produzione si aggirava attorno a 35 quintali fra umido e secco.

La forza elettrica impiegata era pari a HP. 600 mentre la riserva termica era pari a HP. 500 e la mano d’opera contava circa 450 operai6. I lavoratori erano considerati un’importante risorsa, così si adottavano le nuove leggi sociali sull’igiene ambientale, sull’assicurazione, nonché sulla sicurezza antincendio e sul raggiungimento del benessere termoigrometrico.

Inoltre, erano introdotti altri strumenti di assistenza quali asili d’infanzia, convitti ed alloggi. Varia era la gamma dei prodotti che comprendeva filati di lino, canapa, juta, olone, cordami, tele, tovaglie, tessuti damascati ed eterogenea era la clientela rappresentata da privati, Istituzioni Statali, compagnie di navigazione. Infine, lo stabilimento fu rilevato nel 1985 dal Gruppo Marzotto, acquisito alcuni anni fa dalla Società Mec Dab Group e concesso in fitto ad una trentina di aziende che oggi impiegano un cospicuo numero di lavoratori.

Il Linificio e Canapificio di Frattamaggiore: oggi

Il complesso industriale di Frattamaggiore, allo stato attuale, risulta in larga parte ristrutturato e sono stati conservati tutti gli elementi architettonici che caratterizzavano gli edifici industriali dell’epoca, come ad esempio le capriate lignee e metalliche, gli shed, i grandi capannoni in calcestruzzo armato ed il locale caldaia con l’alto fumaiolo. All’interno sono allocate diverse attività commerciali dedite alla ristorazione, al ramo tessile e cordami, al settore farmaceutico, alimentare ed oggettistica.

Autore

Arch. Vincenzo Scotti, Napoli

Relazione Fotografica

Relazione fotografica Linificio Canapificio Nazionale di Frattamagiore

Note

  1. ROBERTO PARISI, Fabbriche d’Italia. L’architettura industriale dall’unità alla fine del secolo breve, Milano, Franco Angeli, 2011.
  2. PASQUALE. DE MEO, MARIA LUISA SCALVINI, Destino della città. Strutture industriali e la rivoluzione urbana, Napoli, ESI, 1965.
  3. GIACINTO LIBERTINI, Persistenza di luoghi e toponimi nelle terre delle antiche città di Atella e Acerra, Frattamaggiore, Tip. Cirillo, 1999.
  4. PASQUALE PEZZULLO, L’economia di Frattamaggiore nel XX secolo, in «Raccolta Rassegna storica dei comuni», Vol. XIX, Frattamaggiore, Tip. Cirillo, 2005, p. 141.
  5. Linificio e Canapificio Nazionale 1873-1923, Milano, Alfieri e Lacroix, 1923.
  6. Linificio e Canapificio Nazionale 1873-1923 , Milano, Alfieri e Lacroix, 1923, p. 456.



La centrale termoelettrica del porto di Genova, sì al vincolo

La centrale termoelettrica del porto di Genova rappresenta un’importante testimonianza storico-architettonica-impiantistica del nostro patrimonio industriale, per tale ragione deve essere tutelata e destinata ad un riutilizzo compatibile con le sue caratteristiche.

CENTRALE TERMOELETTRICA DEL PORTO DI GENOVA: LA STORIA

Il complesso della Centrale termoelettrica del Porto costituisce una delle ultime testimonianze del passato industriale ‘energetico’ che ha caratterizzato la storia della città di Genova.
La centrale, che è rimasta in funzione fino al 2016, si trova all’interno del porto, sotto la Lanterna, simbolo di Genova, alla radice dei moli San Giorgio e Idroscalo.

La centrale termoelettrica fu costruita nel 1929 dalla Società Anonima “CONSORZIO CENTRALI TERMICHE” (CONCENTER), per dotare la “Grande Genova” di una terza centrale da affiancare a quelle di via Canevari e Sampierdarena.

Genova in quegli anni è una città in grande espansione. Nel 1926 è portata a compimento, con uno dei più vasti ampliamenti territoriali condotti in Italia in quel periodo, l’aggregazione dei 19 comuni limitrofi per favorire lo sviluppo delle attività industriali e portuali. In questo quadro si rende necessario potenziare l’offerta di energia con la costruzione di una terza centrale.

Nella scelta della localizzazione per la costruzione della nuova centrale, oltre a fattori puramente tecnici, ha probabilmente contribuito la volontà di celebrare l’innovazione tecnologica, oltre a quella di fornire, a chi giungeva a Genova via mare, un’immagine della città che congiungesse idealmente la città antica e quella industriale verso il futuro.

Il complesso originario tuttora conservato, costituito da corpi di fabbrica di diverse altezze, affiancati, con struttura in pilastri e travi reticolari di ferro chiodato e tamponamenti in mattone, è stato progressivamente ampliato e adeguato, negli anni, alle nuove esigenze e alle normative vigenti.

Il carbone necessario al funzionamento della centrale veniva rifornito via mare mediante navi e chiatte da cui veniva trasportato alla sommità della copertura, dove era posizionato il Bunker; originariamente il parco carbone si trovava su molo Giano, successivamente viene spostato a molo ex Idroscalo.

Il complesso, rilevato nel 1934 dalla Edison, e successivamente del Gruppo Edison Volta, con la nazionalizzazione del 1962 passa a ENEL. Per adeguarlo alle nuove richieste della città viene ampliato con un nuovo corpo destinato a uffici e sevizi (1951), e l’impianto viene potenziato con l’installazione di nuovi gruppi. Successivamente (1968) viene costruito il nuovo carbonile e sono ulteriormente integrati gli impianti e adeguati alle nuove richieste di sostenibilità.

L’impianto rimane perfettamente funzionante fino al 2016 e alla definitiva chiusura nel 2017, adeguandosi allo sviluppo della città e delle attività industriali con volumi di fornitura crescente e adeguamenti alle normative vigenti.

CENTRALE TERMOELETTRICA DEL PORTO DI GENOVA: IL PRESENTE

Il complesso della centrale costituisce quindi una testimonianza particolarmente significativa di quello che era la città e il patrimonio industriale nei primi decenni del ‘900; il fatto che si sia conservato perfettamente funzionante anche con i successivi ampliamenti e adeguamenti contribuisce al valore testimoniale.

A seguito della dismissione, la sua conservazione era fortemente a rischio: la sua posizione, all’interno dell’area portuale, lo rende di grande interesse per le espansioni operative del porto, e ne è stata persino ipotizzata la localizzazione dei depositi chimici di società petrolifere.

CENTRALE TERMOELETTRICA DEL PORTO DI GENOVA: IL FUTURO

L’interesse per la conservazione e valorizzazione della centrale termoelettrica del porto di Genova, motivato dalla testimonianza storico-architettonica-impiantistica della struttura, non concerne solo l’assetto architettonico originale, ma anche quello impiantistico, ambedue considerati negli aspetti più significativi del progressivo ampliamento/potenziamento e trasformazione. Un ulteriore interesse è rappresentato dalla sua localizzazione in adiacenza alla Lanterna, simbolo della città di Genova.

Per questo l’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale (AIPAI), con Italia Nostra Genova hanno chiesto (30.09.2017) alla Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio della Liguria che la struttura venga vincolata nel suo assetto architettonico e impiantistico, ai sensi del decreto legislativo 26.3.2008, n° 62 (integrazioni al decr. Legislativo 22.1.2004, n°42, codice dei Beni Culturali, art. 10, comma 3, lett.d), che il progetto di riuso ne preveda la conservazione con una destinazione d’uso compatibile e che tenga nella debita considerazione l’intero settore con particolare riguardo per le valenze storico-architettonico-paesaggistiche della Lanterna di Genova.

Nel corso dell’istruttoria della pratica AIPAI, con la Scuola Politecnica dell’Ateneo genovese (DICCA- Dipartimento di Ingegneria Chimica Civile e Ambientale e DIME – Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica, Gestionale e dei Trasporti) ha lavorato in accordo con la Soprintendenza, per produrre, anche con la collaborazione di Enel, la documentazione necessaria.

Se per la struttura architettonica non dovrebbero sussistere problemi alla sua conservazione, avendo ormai più dei 70 anni richiesti dalla normativa, per la parte impiantistica la soluzione è più problematica, poiché gli impianti, dovendosi adeguare alle nuove esigenze produttive e alla nuova normativa, sono stati in parte rinnovati.

E’ stato fondamentale in questa fase l’apporto del DIME, con la collaborazione del quale è stato possibile individuare le componenti impiantische del complesso originario e quelle che, anche se introdotte in tempi successivi sono di grande interesse dal punto di vista didattico, scientifico, nonché qualitativo, e soprattutto significative per la produzione energetica e del funzionamento dell’impianto.

La ricerca puntuale e documentata(*) ha portato, in questi giorni (9 agosto), all’avvio del procedimento di vincolo. Come osserva il Soprintendente Vincenzo Tinè, il procedimento riguarda oltre la parte architettonica anche quella impiantistica: si è deciso di conservare anche le parti dell’impianto risalenti al progetto originario, nonché alcune componenti inserite in fase successiva per poter leggere nella sua completezza almeno una linea del ciclo produttivo.

Se, come ci auguriamo, non si sovrapporranno ostacoli al vincolo, si potrà procedere quanto prima alla ricerca di un interessamento da parte degli Enti pubblici e /o privati che dovrebbero intervenire per promuoverne un riuso compatibile.

Sono state al momento già avanzate diverse ipotesi di riuso, parallelamente alla conservazione di parte della centrale come museo di se stessa – vi sono molti esempi in tal senso sia all’estero che in Italia – un’integrazione con un museo dell’industria e dell’energia in particolare – che a Genova non esiste – un centro didattico per le energie (fossili e rinnovabili), nonché un centro per l’arte contemporanea.

In questa fase sarà comunque determinante un accordo tra l’amministrazione comunale e l’Autorità Portuale, proprietaria dell’area su cui insiste la centrale, per individuare un riuso compatibile, che valorizzi l’intera area, con la Lanterna, rendendo questi spazi alla città e a un uso collettivo e interattivo con le scuole.

(*) effettuata a cura di Aipai e dell’Università degli Studi di Genova, Scuola Politecnica (Prof arch Sara De Maestri, Prof ing Pietro Giribone, Prof ing Pietro Zunino, con la collaborazione dell’ing Giacomo Fui)

 

Testo a cura del prof. arch. Sara De Maestri
Università degli Studi di Genova
Dipartimento di Ingegneria Civile Chimica e Ambientale (DICCA)




Arena Geotermica di Larderello, un nuovo spazio culturale firmato Enel

Ecco l’Arena Geotermica di Larderello, un grande spazio per spettacoli all’interno dela torre di raffreddamento.

Un’arena per spettacoli, eventi e manifestazioni del territorio dell’alta Val di Cecina in un contesto più unico che raro: è questa, in sintesi, la nuova opera realizzata a Larderello da Enel Green Power in collaborazione con il Comune di Pomarance.

 

Arena Geotermica di Larderello, Enel Green Power: la struttura

La nuova struttura, utilizzata in anteprima per la rassegna Fra Terra e Cielo, si trova nell’area della centrale geotermica Nuova Larderello, già Larderello 3, e sorge all’interno della vecchia torre di raffreddamento la cui parte superiore è stata demolita, mentre il basamento e l’opera inferiore sono stati mantenuti e ristrutturati per dare forma a una grande arena all’interno della quale sorge un ampio spazio per spettacoli a cielo aperto, che può contenere fino a 300 persone.

L’acustica è ottima grazie all’ambiente delimitato dalle pareti basse della torre di raffreddamento e lo scenario nel suo complesso è davvero suggestivo perché unisce elementi di archeologia industriale a una moderna concezione di teatro contemporaneo, a cui si accede da appositi ingressi oppure da scale di nuova fattura.

Arena Geotermica di Larderello, Elen Green Power: i promotori dell’opera

L’Arena Geotermica è stata realizzata da Enel Green Power che ha fatto un investimento importante per dotare uno dei territori simbolo della geotermia nel mondo di uno spazio che fosse identificativo di questa energia pulita e rinnovabile.

L’iniziativa è stata possibile grazie alla collaborazione con il Comune di Pomarance (dove si trova già il Museo della Geotermia) e con il sindaco Loris Martignoni, da anni impegnati per la valorizzazione storica, culturale e artistica dell’area geotermica.

“Siamo molto soddisfatti – ha detto Massimo Montemaggi, responsabile geotermia Enel Green Power – di aver realizzato questa opera unica al mondo, ci auguriamo possa diventare un punto di riferimento per l’arte e per la cultura in Toscana e in Italia. Insieme al Comune di Pomarance, che ringraziamo per la collaborazione, organizzeremo un momento di inaugurazione e presentazione ufficiale per illustrare tutte le potenzialità di questo luogo”.




Il Porto Vecchio di Trieste: storia e futuro

Il Porto Vecchio di Trieste rappresenta uno dei luoghi più importanti dell’archeologia industriale in Italia legati all’attività portuale.

Porto Vecchio Trieste: cenni storici

Il Porto Vecchio di Trieste copre un’area di circa mq. 601.403, estendendosi dallo sbocco del Canale di Ponte Rosso all’abitato periferico di Barcola. Comprende cinque moli (moli 0, I, II, III, IV), 3100 metri di banchine di carico e scarico merci, ventitrè grandi edifici tra hangars (in origine 38 corpi di fabbrica), magazzini ed altre strutture, è protetto da una diga foranea ed è direttamente collegato alla vecchia ferrovia del 1857.

L’aspetto del Porto Vecchio di Trieste è diverso da quello dei porti dell’area mediterranea in quanto riproduce, nell’impianto urbanistico e nelle regole costruttive dei suoi edifici, le caratteristiche dei Lagerhauser (brani di città destinati alla movimentazione delle merci) dei porti del nord-Europa, come la Speicherstadt di Amburgo.

Il Porto Vecchio di Trieste fu costruito tra il 1868 e il 1887, dopo un’ampia fase progettuale, per volontà dell’impero austroungarico che doveva dotarsi, a Trieste, di un grande porto capace di gestire il retroterra dell’Austria-Ungheria.

Porto Vecchio Trieste: gli edifici storici

Nel Porto Vecchio di Trieste le strutture portuali, i magazzini, gli hangars, gli edifici speciali (centrale idrodinamica e Sottostazione elettrica di riconversione), con le loro tipologie costruttive, le gru e le attrezzature elettromeccaniche testimoniano un aspetto essenziale della città-porto dell’ottocento e del primo novecento.
I magazzini e gli hangars, grandi edifici a uno e più piani, disposti su tre assi paralleli tra loro erano attrezzati con gru, elevatori, montacarichi ed altri arredi per le operazioni di carico e scarico merci; alcuni presentano alla base un “perron” (banchina a terra di movimentazione) adatto per le operazioni dai carri ferroviari o da autoveicoli.
La loro costruzione, che si fondava su progetti di altissima qualità architettonica e su tecniche d’avanguardia nell’uso del cemento armato, è un documento dell’epoca pionieristica dei brevetti detenuti dalle grandi imprese edili europee che avevano le loro filiali a Trieste (brevetto Hennebique della Ing. Odorico & C, brevetto viennese Ing. .Edmund Ast & Co, brevetto Wayss della Wayss, Freitag & Meinog di Innsbruck, brevetto della ditta triestina Ing. Geiringer e Vallon). Il completamento dei magazzini del Porto Vecchio di Trieste si protrasse fino all’inizio del novecento in quanto richiese interventi straordinari di consolidamento delle fondazioni e delle banchine e dei manufatti.
Per il valore di tutto il complesso storico urbanistico, per la presenza dei grandi edifici d’epoca e degli impianti di movimentazione, il Porto Vecchio di Trieste è stato tutelato nell’agosto 2001 dal Ministero per i Beni e le Attività culturali con vincoli di tutela diretti, indiretti e prescrizioni allo scopo di salvaguardarli e di consentire il restauro di tutta l’area attraverso proposte progettuali che non alterino l’esistente.

Porto Vecchio Trieste: il Polo Museale del Porto di Trieste e i primi restauri

I due edifici recentemente restaurati, Centrale idrodinamica e sottostazione elettrica, costituiscono il Polo museale del Porto di Trieste, iniziativa promossa nel 2004 da Italia Nostra con un percorso di realizzazione condiviso dalla Soprintendenza regionale del Friuli Venezia Giulia.
La Centrale idrodinamica è l’edificio di maggior valore tecnologico del Porto Vecchio di Trieste. Il porto di Trieste fu uno dei primi porti al mondo a dotarsi di un tale impianto, assieme ad Amburgo, Buenos Aires, Calcutta e Genova. Realizzata nel 1890, la Centrale del Porto Vecchio di Trieste è da considerarsi un capolavoro di archeologia industriale; ancor oggi conserva le sue prestigiose macchine (Breitfeld & Danek- Karolinenthal di Praga 1891) per la produzione di energia al servizio dei mezzi meccanici del porto.
Per il necessario ampliamento della già esistente sottostazione nel complesso della Centrale Idrodinamica, nel 1913 fu costruita accanto alla Centrale, e ad essa collegata, la Sottostazione elettrica di riconversione.
Questo edificio speciale si distingue stilisticamente dalle altre costruzioni perché costruito su disegno dell’architetto Giorgio Zaninovich, secondo i caratteri stilistici della Wagnerschule (Vienna). All’interno la sala trasformatori, le gallerie protette, le scale, le guide per gli argani, le apparecchiature elettriche e la disposizione degli arredi confermano ancora oggi la dignità e il prestigio di quell’architettura industriale.
In questi edifici verrà raccolto il patrimonio storico del porto di Trieste, che oltre a tutta l’area monumentale del Porto Vecchio, comprende un’ampia documentazione d’archivio.
A partire dal biennio 2012- 2013 la Centrale Idrodinamica e la Sottostazione elettrica di riconversione del Porto Vecchio di Trieste, sono state aperte al pubblico dall’Autorità portuale di Trieste con il contributo dei volontari di Italia Nostra.
In questi anni altri edifici sono stati restaurati dall’Autorità Portuale: il magazzino n. 1 sul molo quarto, il magazzino n. 26, la casa della piccola amministrazione e i varchi d’ingresso.

Porto Vecchio Trieste: il processo di riqualificazione e rigenerazione del distretto storico portuale

Oggi la vecchia area del porto di Trieste ed i magazzini ottocenteschi non sono più idonei a funzioni connesse ai traffici commerciali ed è in corso, dopo varie vicende fallite dagli anni settanta, un processo di riqualificazione e rigenerazione per nuove destinazioni che, nel rispetto dell’identità storica, ne consentiranno una riutilizzazione funzionale.
Se nel corso della rigenerazione non verranno rispettati i vincoli, l’intero distretto portuale storico rischierà di perdere la sua identità.

Sito archeologico industriale: Distretto storico portuale di Trieste (Porto Vecchio)
Settore industriale: Settore Portuale
Luogo: Trieste – Friuli Venezia Giulia – Italia
Proprietà/gestione: passaggio in corso da Autorità Portuale al Comune di Trieste
Testo a cura di: Antonella Caroli* – cartografia arch. Viviana Magnarin. (*Antonella Caroli: attualmente Ispettore onorario Mibac, direttore dell’Istituto di cultura marittimo portuale del porto di Trieste (fino ad aprile 2015), già Segretario Generale dell’Autorità Portuale di Trieste (2000-2004) si è laureata in architettura al Politecnico di Torino. Insieme a Italia Nostra e al comitato scientifico internazionale su Porto Vecchio, è impegnata sul riuso e sullo sviluppo del Porto di Trieste.)




Distilleria De Giorgi San Cesario di Lecce: da fabbrica di spirito a fabbrica per la cultura

Scopriamo la ex Distilleria De Giorgi San Cesario di Lecce, storia di un’impresa del sud oggi affascinante esempio di recupero e valorizzazione dell’archeologia industriale in Puglia.

La storia dell’impresa De Giorgi, produttrice di alcol e liquori per il mercato provinciale ma nota anche in tutta Italia per il liquore Anisetta, è un caso di studio esemplare dell’imprenditoria del meridione d’Italia della prima metà del Novecento.

Vito (padre) e Nicola De Giorgi diventano distillatori sul finire dell’Ottocento. Nel 1906 smettono di lavorare nel mulino di Carmine de Bonis (suocero di Vito) e si dedicano esclusivamente alla produzione in proprio di alcol e liquori, iscrivendosi alla Regia Camera di Commercio ed Arti della provincia di Terra d’Otranto al n° 1570. Questa decisione fu presa dai De Giorgi perché favoriti dalle buone possibilità che offriva l’abbassamento dei costi di produzione dell’alcol, causato dall’aumento della materia prima (vinacce e fecce) e dalla riduzione delle imposte di fabbricazione.

Sin dal 1906 Casa De Giorgi è molto attiva nella pubblicizzazione dei propri prodotti, partecipando a numerose esposizioni. Tra i riconoscimenti, spesso ricordati anche sulle etichette dei prodotti, le medaglie d’oro ricevute all’Esposizione di Siena del 1907 e alle Esposizioni riunite di Roma del 1911.

Tra il 1912 e il 1915 avviene il passaggio di gestione dell’attività da Vito al figlio Nicola; negli stessi anni quest’ultimo sceglie di investire non solo nella produzione ma anche nella distribuzione dei propri prodotti: la scelta è evidente, visto che nel 1915 Nicola è definito negli atti pubblici «commerciante»; sempre nel 1915 è tra le ditte premiate iscritte al «Gran Libro d’Oro» dei Benemeriti del Lavoro.

A distanza di qualche anno Nicola è ormai pronto per divenire un vero e proprio «industriale» e tra il 1917 e il 1920 affida a Giovanbattista Forcignanò la progettazione e la costruzione, in via Vittorio Emanuele III, di un grande stabilimento. Egli progetta il suo complesso industriale puntando alla differenziazione dei prodotti e avviando perciò contemporaneamente una distilleria con annesso liquorificio e fabbrica di vermouth, con reparto di imbottigliamento; uno stabilimento vinicolo con reparto per la trasformazione delle vinacce e delle fecce. Per le dimensioni e l’economia di San Cesario di Lecce il progetto di Nicola De Giorgi ha dimensioni di certo ambiziose.

Intorno alla fine degli anni venti Nicola De Giorgi ha ormai compiutamente individuato la “mission” della sua impresa; gli anni successivi sono dedicati al perfezionamento dei diversi cicli produttivi, alla pubblicizzazione e all’espansione del volume di affari.
Dalla fine degli anni trenta in poi lo spirito non rettificato prodotto a San Cesario di Lecce viene, oltre che venduto a fabbriche di rettifica, inviato nell’altro stabilimento di San Pietro Vernotico (BR) e in seguito anche in quello di Squinzano (le due distillerie furono costruite, la prima nel 1936 e la seconda nel 1938) entrambi dotati di un impianto autorettificatore.

De Giorgi riesce a raggiungere anche il mercato nazionale e internazionale attraverso il liquore Anisetta, divenuto la specialità della Distilleria De Giorgi sin dai primi anni di attività; la fama raggiunta dal liquore va di pari passo con i riconoscimenti e la pubblicizzazione del prodotto fatta realizzare al noto pittore e illustratore Luigi Bompard. Ad appena 14 anni dalla nascita della ditta, il 20 luglio 1920, Nicola De Giorgi riceve da Vittorio Emanuele III° un autorevole riconoscimento quale il Brevetto della Casa Reale.

Ex Distilleria De Giorgi San Cesario di Lecce: il recupero del patrimonio industriale

L’attenzione sull’opificio “Distilleria De Giorgi” di alcuni esperti di archeologia industriale e della comunità scientifica locale (Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali, già IsCOM di Lecce e Corso di laurea in Conservazione di Beni Culturali, poi Facoltà con la Cattedra di Archeologia industriale), viene rivolta tra la fine del 1996 e il 1997, quando nella distilleria era in attività solo il liquorificio. Tutto parte tra la fine del 1999 e i primi mesi del 2000 quando viene redatto e sottoscritto dalle parti un Protocollo d’intesa, tra Comune di San Cesario di Lecce, Facoltà di Beni Culturali, CNR-IsCOM (poi IBAM) di Lecce e Casa Editrice Piero Manni, per lo svolgimento di un’attività congiunta su “Archeologia e patrimonio industriale: sviluppo di un’azione di ricerca, valorizzazione e progettazione”.

I risultati di quest’opera di patrimonializzazione furono tre pubblicazioni a stampa, un cdRom, due mostre e convegni, seminari e giornate di studio; questo permise al Consorzio Universitario Interprovinciale Salentino (CUIS) di finanziare un progetto di ricerca dal titolo: Progetto pilota per la conservazione e valorizzazione del patrimonio archeo-industriale pugliese. Archeologia industriale a San Cesario di Lecce.

Tra la fine del 2002 e per tutto il 2003, la Distilleria De Giorgi è oggetto di studio (svolto dall’arch. Lorena Sambati) nell’ambito del Master in Conservazione, Gestione e Valorizzazione del Patrimonio Industriale-Università degli Studi di Padova.

Nel 2005 l’Amministrazione comunale chiede alla Direzione Regionale per i Beni Architettonici e Paesaggistici della Puglia, il vincolo di tutela, ai sensi del D.co L.vo n° 490 del 29.10.1999, di tutto l’immobile denominato “Antica Distilleria De Giorgi”; il 6 luglio del 2005 l’opificio “è stato dichiarato bene di interesse particolarmente importante”.

Il 2007 segna un anno importante per la ex Distilleria De Giorgi: viene celebrato il suo I° centenario; per l’occasione viene allestita una mostra documentaria e stampato il volume di Antonio Monte e Anna Maria Stagira (con un contributo di Lorena Sambati) dal titolo: La distilleria De Giorgi a San Cesario di Lecce: da opificio a monumento. Conservazione, recupero e valorizzazione.

Nel settembre 2007 il Comune redige un Progetto preliminare per il restauro e la conservazione dell’ex distilleria “Casa De Giorgi” da destinarsi a Museo dell’alcol a firma dell’ing. Paolo Moschettoni con la consulenza tecnico-scientifica dell’arch. Antonio Monte.
Dal 2008 a oggi sono continuati i rapporti scientifici con IBAM-CNR di Lecce, con AIPAI e Università degli Studi di Padova; infatti ogni anno (per dieci anni consecutivi tra giugno e settembre) il Comune ospita la Summer school del Master.

Con AIPAI nel settembre 2011 venne siglato un Protocollo d’intesa finalizzato alla tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio industriale.

La Distilleria De Giorgi il 16 marzo 2011 è stata aggiudicata alla Fondazione “Rico Semeraro” a seguito di una procedura fallimentare che ha avuto la durata di undici anni. Il 28 settembre 2012 la Fondazione, a nome del suo Presidente Giovanni Semeraro, cede gratuitamente al Comune di San Cesario di Lecce la distilleria con “[…] finalità sociali e culturali a beneficio della comunità di San Cesario […]”.

Grazie a questa donazione gli spazi produttivi, con tutte le aree di pertinenza, sono passati nei beni patrimoniali del Comune di San Cesario di Lecce; pertanto è stato possibile, nell’ambito della Legge Regionale n° 21/2008 su: Norme per la rigenerazione urbana (promossa grazie alle risorse del PO-FESR, Programma Operativo-Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, 2007-2013, Asse VII-Linea d’intervento 7.2-Azione 7.2.1), presentare un progetto per il recupero del Giardino storico e degli ambienti circostanti. Il 27 settembre 2014 con una manifestazione culturale pubblica (realizzata a fine lavori del I° lotto funzionale) è stato sancito l’avvenuto passaggio tra le parti.

Da febbraio 2016 a marzo 2017 si sono svolti i lavori del II° lotto grazie al Fondo di Sviluppo e Coesione 2007-2013 del CIPE n° 92/2012 “APQ Aree Urbane-Citta”, Azioni Pilota Programmate “Patto Città-Campagna”.

Ex Distilleria De Giorgi San Cesario di Lecce: il sito di archeologia industriale ed i suoi macchinari

Il sito conserva al suo interno le macchine utilizzate nei diversi processi produttivi: un alambicco della Ditta Cecchin e Quacquarini-Costruzioni in rame e meccaniche, Milano; l’impianto di distillazione (tutto in rame e alto metri 11,80) della Ditta “Officina costruzioni industriali Frilli-San Gimignano (SI)” acquistato nel 1973, per sostituire un vecchio impianto del tipo “Barbet”, e utilizzato sino al 1989 anno in cui la Ditta De Giorgi cessò di produrre alcol; l’apparecchio distillatore delle fecce realizzato dalla Ditta “F.lli Mussi fu Girolamo-Milano” (in acciaio inox, ferro e rame, alto metri 9) acquistato nel 1961 e utilizzato sino al 1972; l’apparecchio dealcalinizzatore della Ditta “Ing. Castagnetti & C. S.p.A.-Grugliasco (TO)” (tutto in rame alto metri 3,90) acquistato nel 1958; una centrifuga delle “Officine Minetti-Milano” acquistata nel 1957; un filtro pressa della Ditta “F.lli Gianazza-Legnano (MI)” per il filtraggio del vermouth e due filtri pressa per il filtraggio delle fecce; le autoclavi in acciaio AISI 316 (alte metri 4) della Ditta “Metalizzazione Italiana” acquistate e impiegate dal 1971; la caldaia in lamiera e conci della Ditta “Impianti Idrotermici-Padova”, acquistata nel 1958; una pigiadiraspatrice della nota Ditta Giuseppe Pietro Garolla di Limena (PD); una tramoggia, con motore e vite senza fine, per spappolare la feccia; un miscelatore in rame della Ditta Officine Meccaniche Pellizzari-Arzignano (VI); 4 elettropompe; 4 filtri pressa della Ditta OCIM-Macchine per l’imbottigliamento, Cologno Monzese (MI); e tante altre.

 

GLI EVENTI ALLA EX DISTILLERIA DE GIORGI SAN CESARIO DI LECCE

Ex Distilleria De Giorgi San Cesario di Lecce: venerdì 21 aprile 2017 inaugurazione di una nuova parte recuperata della distilleria

Venerdì 21 aprile, alle ore 18.00, sarà inaugurata un’altra parte della distilleria; in particolare tutta la zona produttiva relativa alla fermentazione delle vinacce, alla distillazione delle fecce, alla fabbrica di vermouth e agli spazi circostanti.

Il “caso-studio” della distilleria Nicola De Giorgi (con i numerosi studi fatti e la redazione di un progetto generale di rifunzionalizzazione e conservazione del sito industriale) ha attivato processi di partecipazione unici nella realtà dell’Italia meridionale, tanto che l’opera di patrimonializzazione della distilleria è un “caso di studio” per diverse realtà sia nazionali che europee.

Rispettando la volontà dalla Fondazione “Rico Semeraro”, che la destinazione del bene industriale fosse a “[…] fini culturali e sociali […]”, l’Amministrazione comunale ha fortemente voluto e sostenuto i due progetti di Rigenerazione urbana, mirati a far convertire, nel pieno rispetto dei luoghi del lavoro e dei suoi peculiari aspetti archeoindustriali, gli spazi per “prodotti alimentari” a “prodotti per la cultura”.

EX Distilleria De Giorgi San Cesario di Lecce: sabato 22 aprile 2017 giornata studio

Giornata di studio su: Patrimonio industriale e buone pratiche per la conoscenza e la valorizzazione Co-organizzata da AIPAI e Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti, e Conservatori della Provincia di Lecce, in collaborazione con l’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali-Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IBAM), Comune di San Cesario di Lecce, Regione Puglia e E-FAITH.

Dopo i saluti istituzionali di Andrea ROMANO (Sindaco del Comune di San Cesario di Lecce), Salvatore CAPONE (Deputato e Assessore al Patrimonio e LL.PP.), Loredana CAPONE (Assessore della Regione Puglia allo Sviluppo Economico e all’Industria Turistica e Culturale, Gestione e Valorizzazione dei Beni Culturali), Maria PICCARRETA (Direttore della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Brindisi, Lecce e Taranto) e Rocco DE MATTEIS (Presidente Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti, e Conservatori della Provincia di Lecce), Giovanni Luigi FONTANA (Università di Padova, Presidente Nazionale AIPAI) introdurrà i lavori e svolgerà una relazione sul ruolo di AIPAI nel panorama nazionale e internazionale.

In seguito ci saranno gli interventi di Renato COVINO (Università di Perugia, Past President AIPAI) su Il Meridione e il patrimonio industriale: Puglia e Basilicata. Conoscenza, valorizzazione, riuso; Massimo PREITE (Università di Firenze, Membro del Comitato Internazionale per la Conservazione del Patrimonio industriale del TICCIH su La valorizzazione del patrimonio industriale nei network internazionali: la Lista Unesco del patrimonio mondiale e la European Route of Industrial Heritage (ERIH); Luca GIBELLO (Direttore de “Il Giornale dell’Architettura”) su Il riuso dei contenitori industriali tra memoria, trasformazione e conservazione; Manuel RAMELLO (Politecnico di Torino, vice Presidente AIPAI) su RE-ACTS, vocazione al riuso adattivo; Franco MANCUSO (IUAV di Venezia) su Buone pratiche per la valorizzazione del patrimonio industriale; Augusto VITALE (Università Federico II di Napoli) su Uno “statuto” per il progetto di riqualificazione; Edoardo CURRA’ (Università di Roma “La Sapienza”, vice Presidente AIPAI) su Tipi edilizi complessi per l’industria e l’arte agli inizi del Novecento. Processi di conoscenza e valorizzazione in atto a Roma. Alcuni casi studio chiuderanno i lavori della Giornata di studio; Silvio CILLO e Luigi GALLO (Responsabile Unico del Procedimento; Architetto, Gruppo di progettazione “Studio A. Siza”) su Progetto di riqualificazione paesaggistica e ambientale dell’aera urbana ex Cave di Marco Vito; Michele LABALESTRA (Sindaco del Comune di Palagianello) su “Il Paesaggio delle Gravine”. Recupero del sito carsico in Parco Madonna delle Grazie di Palagianello e Antonio MONTE e Lorena SAMBATI (CNR-IBAM e vice Presidente AIPAI; architetto, AIPAI Puglia) su La distilleria Nicola De Giorgi. Dalla patrimonializzazione alle buone pratiche per la conoscenza e la valorizzazione.

Le conclusioni sono affidate al Presidente nazionale AIPAI e Direttore del Master in Conservazione gestione e valorizzazione del patrimonio Industriale, Giovanni Luigi FONTANA.

Modera i lavori Carla PETRACHI, Giornalista

Sito archeologico industriale: Distilleria Nicola De Giorgi
Settore industriale:Settore Alimentare
Luogo: San Cesario di Lecce – Lecce – Puglia – Italia
Proprietà/gestione: Comune di San Cesario di Lecce
Testo a cura di: Antonio MONTE, CNR-IBAM; AIPAI email: a.monte@ibam.cnr.it




Le centrali idroelettriche Edison in Lombardia | VIDEO

Scopriamo alcune delle centrali idroelettriche Edison in Lombardia, monumenti industriali di particolare bellezza.


Attraverso una serie di video realizzati da Edison, “la più antica società europea nel settore dell’energia e tra le principali società energetiche in Italia”, abbiamo l’opportunità di fare un viaggio alla scoperta di luoghi dal fascino unico che legano sapienza ingegneristica a gusto architettonico, luoghi che raccontano la nostra storia economico-industriale.

Ma prima di tutto è interessante capire come funziona la centrale idroelettrica. Lo scopriamo grazie ad un video sempre prodotto da Edison

 

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La centrale idroelettrica Bertini di Edison

La Centrale idroelettrica Bertini realizzata a Cornate d’Adda (MB), località Porto Inferiore, è la più antica centrale idroelettrica del gruppo Edison. Quando fu inaugurata, nel 1898, era il più grande impianto elettrico d’Europa e il secondo nel mondo… Continua qui

 

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La centrale idroelettrica Esterle di Edison

La centrale idroelettrica Esterle di Cornate d’Adda (MB), fu costruita tra il 1906 e il 1914. La centrale è stata dedicata alla memoria di Carlo Esterle, consigliere delegato della società Edison fino al 1918. Per l’epoca si trattava di un impianto di notevole importanza e capace di produrre 30.000 Kilowatt… Continua qui

 

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La centrale idroelettrica Guido Semenza di Edison

Nel 1917, Edison decise di sfruttare la quota ancora disponibile, nella stagione estiva, dell’energia dell’Adda e fu avviata la costruzione dell’ultimo, il più piccolo, degli impianti dell’Adda, quello di Calusco d’Adda (BG), poi intitolato all’Ing. Guido Semenza (direttore tecnico della società)… Continua qui

 

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Le centrali di S. Stefano, Venina e Publino di Edison

Gli impianti idroelettrici Edison denominati Armisa, Publino, Zappello, Vedello, Venina utilizzano le acque dei torrenti che nascono dalle Prealpi Orobie, tra cui i principali sono Malgina, Armisa, Caronno, Livrio, Venina, e dei loro affluenti, a loro volta affluenti di sinistra dell’Adda

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Dalmine dall’impresa alla città. Storia di una company town

Scopriamo Dalmine, la company town alle porte della città di Bergamo in Lombardia.

 

 

L’insediamento urbano di Dalmine, sorto nei primi anni del secolo scorso attorno allo stabilimento siderurgico, vive un rapido e intenso sviluppo architettonico e urbanistico fra gli anni ’20 e ‘40, quando, per iniziativa diretta dell’impresa e per la gran parte sotto la regia dell’architetto milanese Giovanni Greppi, vengono realizzate infrastrutture, quartieri residenziali, edifici pubblici e un fitto insieme di interventi che vanno via via a definire e caratterizzare una vera e propria città industriale. L’impresa costruisce e consolida inoltre una fitta trama di relazioni con le istituzioni locali e con il territorio, attraverso iniziative ed interventi di carattere sociale, assistenziale, ricreativo, rivolti in primo luogo ai propri dipendenti e alle loro famiglie. Interventi che sono parte integrante di un sistema di welfare aziendale di cui i manufatti architettonici, tracce materiali, sono oggi il sedimento più visibile.

Dalmine – Le origini dell’impresa

Lo stabilimento sorge nel 1906, in una località denominata Dalmine, per iniziativa della Società Mannesmann, titolare del brevetto per la produzione di tubi in acciaio senza saldatura. La conformazione pianeggiante del terreno, il prezzo relativamente favorevole, la disponibilità di energia e acqua e, non ultimo fattore rilevante, l’ampio bacino di manodopera non specializzata a basso costo, favoriscono l’insediamento dell’attività in un’area agricola e priva di impianti industriali.

Fin dal principio l’impresa stabilisce un complesso sistema di relazioni e negoziazioni con i Comuni di Mariano, di Sforzatica e in particolare di Sabbio, sotto la cui giurisdizione si trova la allora frazione di Dalmine. Rapporti, che trovano una prima importante definizione nella firma di una convenzione del 1909, che insieme all’insediamento dell’impianto regolamenta la realizzazione di vie di trasporto, di una rete idrica ed elettrica e di servizi minimi per la popolazione. Accanto alle infrastrutture industriali sorge così un primo apparato di alloggi e servizi per il personale trasferitosi nell’area di Dalmine dalla Germania, nel caso di dirigenti e tecnici, e dai comuni limitrofi nel caso di manodopera generica.

Nel 1911, con le lavorazioni di laminazione ormai a regime, e la nuova acciaieria elettrica avviata da un anno, la Mannesmann impiega 700 addetti, quando gli abitanti complessivi dei tre Comuni di Sabbio, Mariano e Sforzatica ammontano complessivamente a 3.200.
Lo scoppio della prima guerra mondiale, l’allontanamento della proprietà tedesca, le difficoltà della riconversione ad una economia di pace e l’insorgere di tensioni sociali – che conducono all’occupazione dello stabilimento nel marzo del 1919 – contribuiscono a frenare lo sviluppo dell’impresa e di conseguenza la sua capacità di azione sul territorio.

La città industriale di Dalmine – Impresa e città

Soltanto dopo la metà degli anni ‘20 si presentano una serie di condizioni che conducono alla nascita e sviluppo di un progetto urbanistico e sociale. Un progetto che si realizza anche con la costruzione, da parte della nuova Società, ora di proprietà dello Stato e denominata Stabilimenti di Dalmine, di una solida rete di relazioni istituzionali e territoriali con le locali autorità ecclesiastiche e politiche, nell’ambito di un controllo sempre più stretto imposto dal regime fascista. Ma anche le condizioni interne all’impresa si sono stabilizzate: un netto miglioramento dei conti della Dalmine grazie all’incremento delle commesse unite ad un intenso ammodernamento degli impianti, compongono un quadro complessivamente favorevole nel quale il rapporto di committenza che lega l’impresa all’architetto Greppi, trova una concreta, articolata e sistematica realizzazione.

A partire dal 1924 nascono così il Quartiere operaio, il Quartiere impiegati, la Pensione privata, gli impianti sportivi, il Quartiere centrale, una fitta serie di edifici collettivi direttamente o indirettamente legati alle funzioni non strettamente produttive dell’impresa, edifici di rappresentanza, edifici religiosi, piazze, scuole, colonie e aziende agricole. Con la seconda metà degli anni ‘30, parallelamente alla crescita dell’impresa, che giunge ad occupare un’area di 650.000 metri quadrati e ad impiegare 3.850 addetti nel 1935 e circa 5.500 nel 1940, cresce anche la popolazione residente: dai circa 6.000 abitanti del 1931 ai circa 7.300 del 1941. La dichiarazione di notevole importanza industriale, ottenuta dal Comune di Dalmine nel 1941 per decreto del capo del Governo, sancisce formalmente il completamento del processo di formazione della company town. Questo secondo periodo di vita della Dalmine, ormai parte dell’industria di Stato, è quindi quello della costruzione della piena identificazione fra impresa-fabbrica-territorio.

La company town di Dalmine – “Il villaggio modello”

La città industriale trova una significativa riorganizzazione nel 1927, con la nascita del Comune di Dalmine, che accorpa – sotto una denominazione che coincide sì con quella originaria dell’area, ma soprattutto con quella attuale dell’impresa – i tre paesi di Sabbio, Mariano e Sforzatica. La creazione del nuovo Comune sancisce di fatto lo spostamento del baricentro di una serie di funzioni ed edifici pubblici dal loro insediamento originario, al nuovo spazio antistante gli stabilimenti, che si pone come polo della riorganizzazione del territorio, e quindi sede delle istituzioni che lo governano. In quest’area sorge così nel 1931 la nuova Chiesa di San Giuseppe, donata alla Parrocchia e inaugurata solennemente il 19 marzo, giorno di festa del patrono dei lavoratori. La nuova sede del Comune è inaugurata nel 1938 nel nuovo centro della città, progettato su disegno di Greppi, dove hanno sede anche la Casa del Fascio, il Dopolavoro aziendale e l’asta alzabandiera (l’”antenna”), costituita da un unico tubo senza saldatura prodotto nello stabilimento di Dalmine, e di fatto simbolo della città.

Al vertice del nuovo Comune di Dalmine, in veste di Podestà, siede il Direttore amministrativo della Dalmine, nonché amministratore delegato de La Pro Dalmine, la Società costituita nel 1935 con lo scopo di gestire il patrimonio non industriale della Dalmine. In questi anni la company town di Dalmine si realizza non solo e non tanto attraverso le pur numerose costruzioni di edifici destinati ad abitazione o ad usi pubblici, ma anche attraverso l’esercizio e il controllo di una serie di altre funzioni legate alla gestione ed organizzazione del tempo e dello spazio esterno a quello lavorativo o abitativo. Un articolato sistema di attività che costituisce il vero tessuto connettivo di una strategia di costruzione del consenso e di creazione di una comunità, ovvero quel “villaggio modello” che la propaganda cinematografica fascista del 1940 illustra con riferimento alla città di Dalmine.

“Dare la possibilità di risiedere in luogo”: il sistema abitativo della città-impresa di Dalmine

“Dare la possibilità di risiedere in luogo” è uno degli obiettivi perseguiti dall’impresa fin dai suoi primi anni di attività per ospitare personale proveniente dalla Germania e dall’Austria, attrarre manodopera, che i ritmi del lavoro di fabbrica richiedono risieda nelle vicinanze degli impianti produttivi e interrompere – se possibile – quel legame con il mondo rurale che comporta picchi di assenteismo nei periodi dei più importanti lavori agricoli. La casa rappresenta inoltre un importante elemento di riduzione del rischio di turn over della manodopera, soprattutto di quella specializzata, poiché il passaggio del posto di lavoro di padre in figlio, pratica assai diffusa, implica il rinnovo del contratto d’affitto. Contratti che, essendo assai restrittivi nella durata (solitamente annuale) e vincolati al mantenimento del posto di lavoro, sono in definitiva, totalmente sottoposti al potere e alle strategie dell’impresa. Nel 1935, all’inizio della sua attività, la Pro Dalmine gestisce circa 70 edifici, che danno alloggio a più di 150 famiglie impiegati e di operai, per un totale di oltre 800 persone. Negli anni ‘40 i fabbricati sono quasi 90, con un numero di locali che è quasi raddoppiato (1.460 al posto di 878).

VIDEO: Cronistoria TenarisDalmine

Dalmine company town: salute, previdenza e assistenza

La Società, fin dall’inizio dell’attività, tenta di porre rimedio alle precarie condizioni igienico-sanitarie e di garantire la salute dei propri dipendenti. Nei primi anni ‘10 favorisce così la nascita di una farmacia comunale e provvede inoltre a ospitare l’ambulatorio comunale nei locali dell’abitazione del medico aziendale, la cui attività si estende anche al di fuori dell’area industriale.

Già nei primi anni ‘20 nascono inoltre una Cassa mutua operai, che sussidia i soci in malattia con il 60% della paga giornaliera, e la Cassa di previdenza per impiegati, che, attraverso il versamento di un contributo sulla paga mensile, di contributi volontari e di erogazioni liberali della Società, assicura un fondo di previdenza dal momento della loro cessazione in servizio. Entrambe le casse si occupano inoltre del pagamento delle convalescenze di particolare gravità e delle cure speciali sia per i dipendenti che per i loro figli.A questo fine la Dalmine può contare fin dagli anni ‘20 su di una colonia elioterapica, gestita della Direzione sanitaria dello stabilimento. A questa seguono, nel 1931, la Colonia montana di Castione della Presolana, nel 1938 quella marina di Riccione, e dal 1941 quella di Trescore Balneario, dotata di un padiglione per le cure termali. Le attività di welfare nell’ambito sanitario culminano negli anni ‘40 con la costruzione di un Poliambulatorio.

Dalmine company town: istruzione e formazione

Altro ambito cruciale di sviluppo del welfare aziendale è senza dubbio quello dell’organizzazione e controllo del sistema formativo, ovvero dell’istruzione primaria e tecnica. Già nel 1909 la Mannesmann contribuisce alla maggior parte delle spese per il mantenimento dell’istruzione di base nella frazione di Dalmine. E se la scuola elementare di Stato nasce a Dalmine solo nel 1928, già tre anni prima è invece attiva la scuola elementare fondata dall’impresa, composta da cinque classi miste. Nel 1916 nasce la prima Scuola popolare operaia e nel 1922 una Scuola professionale serale. Nel 1929 prendono invece avvio alcuni corsi serali domenicali per capi operai, che anticipano la nascita, nel 1937, della Scuola apprendisti, che forma, nei primi 11 anni di attività, oltre 200 operai specializzati. Si tratta di una istituzione formativa che fonda la propria attività sull’integrazione fra teoria e pratica, sulla didattica del lavoro. Una scuola in cui al tradizionale apprendistato fondato sul rapporto con operai più anziani si preferiscono, da un lato, i nuovi metodi di organizzazione del lavoro, e, dall’altro, una disciplina di tipo militare (alzabandiera, adunata, giochi ginnici, campeggio estivo).

Dalmine: industria e agricoltura in un sistema integrato

In quel 1941 in cui Dalmine riceve il riconoscimento di comune di notevole interesse industriale l’impresa risulta essere, dalla documentazione conservata presso l’Archivio comunale, anche uno dei maggiori produttori agricoli. Nel 1946 l’azienda agricola della Pro Dalmine coordina infatti 14 gruppi colonici, che ospitano 140 persone e danno lavoro a oltre 60 contadini. Le Cascine, significativamente denominate con nomi dell’impero fascista (Macallè, Adua, Asmara, Addis Abeba), sono insediate su terreni appartenenti alla Società e riforniscono l’impresa e la città con i loro prodotti, secondo il modello “autarchico” del regime fascista. I principali clienti dell’azienda agricola sono infatti la la Mensa aziendale e la Cooperativa di consumo, che offrono così prodotti agricoli, latte e carne a prezzi calmierati. Ma al di là degli aspetti ideologici – intensificati negli anni della battaglia del grano – nella strategia della Pro Dalmine vi è una continua attenzione a una gestione moderna, quasi industriale dei terreni non occupati dall’attività produttiva. Vengono investite cospicue risorse per rendere ogni singolo gruppo colonico maggiormente produttivo, applicando criteri moderni di rotazione dei raccolti e di selezione delle sementi. Anche la progettazione degli spazi rientra nel più ampio incarico affidato all’architetto dell’impresa, Giovanni Greppi.

Dalmine, anni ’50: il welfare cambia

Nei primi anni del dopoguerra, pur in un quadro politico-istituzionale e di relazioni industriali totalmente rinnovato, la Società mantiene e rafforza il proprio apparato assistenziale sorto nei decenni precedenti ma ancora efficace nell’affrontare le necessità e i problemi postbellici. Ma negli anni delle lotte sindacali e del boom economico l’impresa promuove un nuovo sistema salariale, che tende a trasformare in retribuzione, o meglio in incentivi alla produzione, parte di quelle elargizioni in beni materiali o in servizi nate negli anni ‘20, legando così alla disciplina sul posto di lavoro la possibilità di usufruire dei vantaggi di appartenere alla “grande famiglia” di Dalmine.
Se quindi è vero che, a partire da questi anni, prende avvio il processo di progressiva riduzione da parte dell’impresa del proprio potere di governo diretto del territorio, è altrettanto vero che il tessuto connettivo della company town, ovvero quel sistema di relazioni fondato fra l’altro sulla comunicazione interna, sulle provvidenze, sui servizi al personale, sui servizi di assistenza e ricreazione, continua pressoché invariato nella sostanza.

Sito archeologico industriale: Dalmine Company Town
Settore industriale:Industria metallurgica
Luogo: Dalmine – Bergamo – Lombardia – Italia
Proprietà/gestione: TenarisDalmine – sede operativa di Tenaris in Italia – è il primo produttore italiano di tubi di acciaio senza saldatura per l’industria energetica, automobilistica e meccanica. Tenaris è il maggior produttore e fornitore globale di tubi in acciaio e servizi per l’industria energetica mondiale e per altre applicazioni industriali.www.tenaris.com
Testo a cura di: Fondazione Dalmine www.fondazionedalmine.org
Fonti: Carolina Lussana, Manuel Tonolini, Dalmine: dall’impresa alla città, in Dalmine dall’impresa alla città. Committenza industriale e architettura, a cura di Carolina Lussana, Fondazione Dalmine, Dalmine, 2003.

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Ex Vetreria Ricciardi: simbolo dell’era industriale a Vietri sul Mare in Costiera Amalfitana

La ex Vetreria Ricciardi di Vietri sul Mare in provincia di Salerno conserva tra le sue mura le tracce di un passato tutto da scoprire e raccontare.

 

ex Vetreria Ricciardi - Vietri sul Mare - ph Francesco Lupo - prospetto sud scorcio

Originariamente sorto come monastero, il complesso venne convertito nel ‘700 in opificio per poi essere trasformato nell’800 in una grande fabbrica. Oggi la ex Vetreria Ricciardi è uno di quei beni di archeologia industriale che attende di essere recuperato e rigenerato per tramandare alle generazioni presenti e future la sua storia.

 

La storia industriale di Vietri sul Mare

La Costiera Amalfitana, con i suoi paesini aggrappati alle montagne ed i panorami mozzafiato, è oggi una delle mete turistiche più affascinanti d’Italia, ma fino a qualche secolo fa era tra i poli industriali più importanti del Mezzogiorno.

Vietri sul Mare, città capofila della Costiera Amalfitana dalla secolare tradizione di ceramica artigianale (testimonianze già nel Medioevo e più accreditate dal 1472), vede nascere i primi opifici nel XVII secolo con lavorazioni protoindustriali di ceramica, smalti, vetro, metalli carta e tessuti. Sfruttando l’energia idraulica del fiume Bonea per alimentare macchinari tecnologicamente sempre più sofisticati, contando su una fitta rete di scambi commerciali in tutto il Mediterraneo e godendo dell’autonomia politica dalla città di Cava de’ Tirreni sancita da Giuseppe Bonaparte nel 1806, Vietri sul Mare si afferma nell’800 non solo come centro di produzione industriale ma anche come prolifico ambiente culturale, ospitando artisti ed intellettuali da tutta Europa attirati dal fascino del Grand Tour. Nel Novecento, a causa della crisi del ’29 e dell’alluvione del ’54, si assiste alla progressiva ma inesorabile chiusura dei settori industriali, soppiantati dal comparto turistico.

Attualmente la Costiera Amalfitana viene percepita, in un certo senso, come un gioiello cristallizzato in un’epoca ormai lontana e irriproducibile, un museo a cielo aperto da visitare quasi esclusivamente d’estate, un paesaggio suggestivo da fotografare e incorniciare, impegnarsi dunque a ridare valore alla storica produzione industriale locale si configura come una delle possibili strade per diversificare e destagionalizzare il flusso turistico attraverso la sperimentazione di nuovi contenuti.

Ex Vetreria Ricciardi: ricerca storica, studio dell’architettura e del contesto territoriale

Nel 1736 il notabile Lorenzo Cantilena lascia in eredità tutti i suoi averi per la costruzione di un Monastero di sole donne nella zona dell’Olivone, una forcella tra le attuali via XXV Luglio e via Costiera Amalfitana a Vietri sul Mare. Dopo il completamento l’edificio viene sottratto alle religiose a causa delle leggi Murattiane e utilizzato come lanificio.

Successivamente viene acquistato da Luigi Maglione che ne utilizza i locali per produrre bottiglie in vetro. Nel 1860 la Famiglia Taiani rileva l’intero stabilimento, avvia le prime opere di ampliamento realizzando un capannone sul lato orientale e dando inizio alla produzione di vetri e cristalli.

La società Modigliani-Ricciardi nel 1880 acquista la fabbrica, continua la produzione vetraia e provvede ad ampliare ulteriormente la struttura realizzando un nuovo corpo di fabbrica sul lato meridionale, ma agli inizi del ‘900 la società si scioglie e Cesare Ricciardi resta alla guida dell’azienda realizzando nuove opere di ampliamento sul lato sud. Infine i Solimene, importante famiglia di ceramisti vietresi, acquista nel 1956 la vetreria e termina le opere di ampliamento innalzando ancora di un piano il capannone industriale ed il corpo di fabbrica ottocentesco posto sul lato meridionale.

Attualmente l’Ex Vetreria Ricciardi versa in uno stato di evidente degrado e addirittura dissesto nella zona occidentale. I numerosi cambi di destinazione d’uso, gli stravolgimenti architettonici nei locali interni per accogliere le svariate attività produttive e l’abbandono durante gli ultimi decenni hanno compromesso profondamente l’aspetto delle facciate principali rendendo per altro quasi impossibile la lettura delle interessanti stratificazioni storiche dei vari corpi di fabbrica che fanno di questo edificio un eccezionale esempio di archeologia industriale.

 

Prima di ipotizzare qualsiasi intervento di restauro si è reso pertanto necessario lo studio della fabbrica attraverso i rilievi fotografici, architettonici, materici e del degrado che hanno evidenziato la complessità di un edificio evolutosi in tre secoli di storia, le varie tecniche costruttive che lo caratterizzano e lo stato di conservazione dei materiali.

Un progetto di restauro e conservazione dell’Ex Vetreria Ricciardi

Da una fabbrica di vetro e ceramica ad una fabbrica di idee e progetti per il futuro.

Così si può sintetizzare il progetto proposto dall’architetto Francesco Lupo, che sulla ex Vetreria Ricciardi ha compilato la sua tesi di laurea in restauro architettonico all’interno della facoltà di Architettura.

Gli obiettivi generali del progetto sono due, il primo è quello di liberare le architetture permettendo una chiara lettura delle stratificazioni storiche dell’edificio attraverso la demolizioni delle aggiunte contemporanee incompatibili con la struttura, il riproporzionamento delle facciate nord e sud, la ricostruzione di alcuni moduli con i criteri dei restauro critico, la separazione mediante tagli e lucernai dei vari corpi di fabbrica appartenenti ad epoche differenti.

Il secondo obiettivo, concorde con le previsioni UNESCO per la Costiera Amalfitana, con i vincoli del Piano Urbanistico Territoriale vigente, nonché con le disposizioni della Soprintendenza ai Beni Culturali, consiste nel recuperare la vocazione industriale del territorio, incentivando la diffusione della conoscenza dell’arte della fabbricazione della ceramica e della carta mediante l’assegnazione della funzione scolastica (istituto tecnico professionale) ai locali situati al piano del chiostro ed ai piani superiori dell’Ex Vetreria Ricciardi e mantenendo la funzione industriale di fabbrica per la ceramica nei due piani parzialmente interrati.
Far coesistere in un unico edificio la scuola ed il lavoro, mettendo in comunicazione queste due realtà attraverso pozzi di luce, tagli nei solai e sistemi di risalita. La Scuola è il luogo dove la cultura può essere conservata, aggiornata e fatta evolvere, il posto dove la storia e l’arte sono tramandate e dove quindi nascono e si sperimentano le nuove idee. La Fabbrica è il luogo dove la teoria diventa concretezza, dove gli errori diventano esperienza, dove la passione diventa lavoro.

Questo progetto vuole proporre un luogo dove la cultura e il lavoro possano incontrarsi, mescolarsi e generare un cambiamento virtuoso.

Sito archeologico industriale: ex Vetreria Ricciardi
Settore industriale: Produzione ceramica e vetro
Luogo: Vietri sul Mare, Salerno, Campania, Italia
Testo a cura di: architetto Francesco Lupo
Crediti fotografici: foto e studio del progetto a cura dell’architetto Francesco Lupo