Tresigallo, la città corporativa di Edmondo Rossoni

Tresigallo, in provincia di Ferrara, è la più completa tra le città nuove, la sola e vera città corporativa realizzata nel ‘900. Risorta grazie alle idee rivoluzionarie di Edmondo Rossoni, Tresigallo si distingue nettamente dagli interventi dell’Agro Pontino per la sua complessità e per la visione sociale che sta a monte del progetto urbano. 

 

Nella pianura orientale della Provincia di Ferrara, sulla sponda sinistra del Po di Volano, si trova una piccola, quanto ancora sconosciuta, capitale del razionalismo italiano: Tresigallo, la città di marmo immersa nel verde della pianura padana.

Nonostante sia uno dei centri della provincia più antichi, Tresigallo conosce il suo massimo splendore tra il 1933 e il 1939, quando Edmondo Rossoni, allora Ministro dell’Agricoltura e Foreste, nativo del posto, dà un nuovo assetto urbano, industriale e architettonico al paese.

La nuova cittadina viene concepita in modo da creare non solo un’inscindibile relazione fra l’abitato e il territorio, attraverso l’industria di trasformazione, ma anche tutta quella complessità di relazioni sociali che fondano l’identità urbana.

Ma, se è vero che Tresigallo ha una storia molto diversa rispetto alle città nuove propagandate dal Duce, se è vero che la città è l’espressione e la concretizzazione del pensiero politico-economico del Ministro, bisogna prima conoscere la storia e le idee di Rossoni per poi comprendere la rifondazione del paese.

 

Edmondo Rossoni e le origini della trasformazione di Tresigallo

Tutto comincia e si realizza per volontà di Edmondo Rossoni, nato qui nel 1884, quando il paese era solo un povero agglomerato di vecchie case.

Anarchico, socialista, anima inquieta, insomma quel che si dice un perfetto rivoluzionario. Praticamente inarrestabile, presto diviene una vera e propria potenza politica, con una escalation che lo portò a conquistare, nel 1921, la carica di capo dei sindacati fascisti, aderendo così al fascismo, mantenendo sempre quel suo lato ribelle, spregiudicato di vecchio rivoluzionario.

Sempre avrà come sogno l’idea di un “Paese più giusto” e forte economicamente anche sulla scena internazionale, un Paese senza padroni né servitori e dove i proprietari non devono più considerarsi padroni. Edmondo Rossoni si fa così portavoce del “sindacalismo integrale”, ovvero l’organizzazione in un medesimo ente corporativo, autonomo sia dai partiti che dallo Stato, di datori di lavoro e prestatori d’opera. Questa teoria trova però ostacolo da parte dei datori di lavoro, per nulla disposti a rinunciare alla loro autonomia.

Dopo alcuni anni, nei quali Rossoni è appoggiato da un grandissimo consenso nazionale, nonché temuto dallo stesso Mussolini (il quale intuisce che quell’abilissimo oratore e trascinatore di folle andava ridimensionato), il 21 novembre 1928 avviene il cosiddetto “sbloccamento sindacale”, in cui il Sindacato unitario diretto da Rossoni viene diviso in sette parti. È la sconfitta politica di Rossoni, il quale perde potere e consenso.

Ma Rossoni è personaggio troppo importante e ingombrante. Così, nel settembre del 1930, entra a far parte del Gran Consiglio del Fascismo e nel luglio del 1932 viene nominato Sottosegretario della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sono questi gli anni in cui vengono costruite le prime città nuove volute dal Duce: sorgono Littoria, Sabaudia, Pomezia, Aprilia, Guidonia (nel Lazio), Mussolina (poi Arborea), Carbonia, Fertilia (in Sardegna). Rossoni presenzia personalmente alla costruzione e all’evoluzione di alcune di queste città – inaugurando nuovi stabilimenti industriali o visitando i cantieri – osservando allo stesso tempo le loro carenze organizzative e sociali: i problemi idrici, un’ascesa industriale mai veramente decollata, una bonifica troppo radicale, una migrazione “coatta” che destabilizzava l’individuo, il quale veniva a trovarsi a contatto con una realtà così differente dalla sua.

Edmondo Rossoni inizia così a pensare, segretamente e lontano da grandi clamori, alla costruzione di una “città modello”, la sua città, più “intelligente” rispetto a quelle dell’Agro Pontino e a quelle che si andavano diffondendo in tutta Italia, una città dove poter concretizzare le sue idee di sindacalismo integrale, sicuro del fatto che, se fosse riuscito a proporre un modello concreto di città corporativa, avrebbe dimostrato che la sua idea vincente poteva essere riprodotta su scala nazionale, ovvero: costruire una città utopica, mai realizzata prima di allora, dove ci sarebbe stata una viva collaborazione tra lavoratore e datore di lavoro, con obiettivi finalizzati a creare nuove risorse e opportunità, nuovo sviluppo, maggiore ricchezza e benessere per la gente.

È il 1933 quando viene costruita una strada che da Ferrara porta a Tresigallo, aprendo la viabilità e il commercio a quel piccolo paese, che viveva ormai da secoli nella povertà e nella miseria.

Con la nomina nel 1935 a Ministro dell’Agricoltura e Foreste, Rossoni si dedica a fondo alla costruzione della sua città, in modo quasi clandestino, senza utilizzare i grandi clamori propagandistici con cui le città nuove dell’epoca venivano seguite. Una volta nominato Ministro, Rossoni torna a Tresigallo, dove tutta la cittadinanza lo aspetta in teatro festante, e si impegna a ricostruire Tresigallo tutta nuova, con case, ospedale, fabbriche, piazze, vie, dando lavoro a quella cittadinanza che fino ad allora aveva vissuto soffrendo.

Era iniziata la rifondazione del paese.

 

La rifondazione di Tresigallo

Quando Rossoni si trova a Tresigallo, progetta a tavolino con l’ingegner Carlo Frighi, suo compaesano, al quale ha finanziato gli studi nella Scuola di urbanistica all’Università La Sapienza di Roma, il futuro sviluppo del paese, tracciando, probabilmente in privato, linee organizzative urbanistiche estremamente precise; quando il ministro è a Roma, spedisce all’amico Livio Mariani, macellaio del paese, degli schizzi, degli accorgimenti, delle lettere riguardanti la costruzione di nuovi edifici e strade. Rossoni mette fretta, ordina di fare presto, di concludere il prima possibile gli edifici prestabiliti. Così, non si fa in tempo a tracciare le vie che immediatamente crescono i corpi delle fabbriche, i muri, i solai, gli intonaci, le finestre e le tinteggiature delle case.

L’operazione di trasformazione della cittadina e del territorio avviene attraverso la partecipazione della gente del posto, la quale collabora e partecipa attivamente alla trasformazione del proprio territorio, anche se non ha un’adeguata preparazione professionale, come scriverà Rossoni in una lettera a Mussolini nel ’40 spiegando il proprio operato.

Il ministro agisce con intelligenza, dimostra personalmente agli imprenditori, i quali inizialmente rifiutano di aiutarlo, che vi può essere un guadagno reale. Con questo spirito, all’inizio del 1935 si iniziano a vedere le prime opere, le prime strade, i primi stabilimenti industriali. Si sperimentano straordinarie tecniche di costruzione, per l’epoca geniali: ad esempio, vennero adoperati, essendo in piena autarchia, materiali poveri a portata di mano, come il cemento per simulare il marmo (da vedere il porticato della chiesa di piazza Italia), ottenendo le venature con del sale grosso sparso sulle lastre in essiccazione.

Tresigallo città di Fondazione - libro di Stefano Muroni

“Tresigallo, città di fondazione. Edmondo Rossoni e la storia di un sogno” Autore Stefano Muroni Casa editrice Pendragon www.pendragon.it Pp. 342 Uscita: 8/10/2015

La costruzione del Loggiato della Chiesa rivestito in marmo bianco e ornato con formelle inneggianti al lavoro agricolo; la Casa del Fascio, attualmente caserma dei Carabinieri, anch’essa rivestita in marmo bianco; la maestosa piazza della Rivoluzione, a forma di D, con al centro un’elegante fontana arricchita da quattro sculture bronzee che rappresentano quattro gazzelle protese nell’intento d’abbeverarsi; l’Ospedale (la cosiddetta Colonia Post-Sanatoriale) per la cura della tisi, tempio eretto al culto della salute contro i germi del decadentismo, sfoggiante di una bellissima scala interna a spirale, la terrazza-solarium e una serie di finestre a forma di oblò; la monumentale entrata del Campo Sportivo, realizzato in marmo travertino; sono queste – col senno di poi – alcune opere della rifondazione che portarono ad un momento felice di pregiata architettura razionalista italiana.

Diversamente dalle città rurali create dal Regime, Tresigallo fu anche fornita di una dotazione di servizi pubblici di prim’ordine: la Scuola di Ricamo per le ragazze, l’Acquedotto, l’Albergo Italia, l’Albergo Domus Tua (di lusso), un Asilo Nido, dedicato alla madre di Rossoni, Maria Dirce Cavalieri Rossoni, un Asilo Infantile (già esistente nel nucleo novecentesco del paese), impreziosito con un portale d’ingresso, su cui spicca il bassorilievo del balcone raffigurante il Sacrario ai Caduti, la Casa del Balilla, divenuta poi Casa della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio), luogo della formazione ideologica-fisica dei giovani con annessi i Bagni Pubblici, una Sala da Ballo per lo svago della popolazione, la Scuola Elementare, il Teatro Corporativo (poi Cooperativo), l’edificio delle Assicurazioni Generali Venezia.

Tresigallo viene arricchita con un arredo urbano costituito da cento e più lampioni, panchine, fontane, centinaia di alberi selezionati: nel parco del nuovo ospedale, lungo il viale del nuovo cimitero, lungo viale Roma, lungo viale Verdi, in piazza della Rivoluzione e intorno agli opifici, ovunque.

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Sito archeologico industriale: Tresigallo
Settore industriale: Misto – Città di fondazione
Luogo: Tresigallo, provincia di Ferrara, regione Emilia Romagna, Italia
Testo a cura di: Il testo è stato interamente prodotto da Stefano Muroni, autore del libro “Tresigallo, città di fondazione. Edmondo Rossoni e la storia di un sogno” edito da Pendragon www.pendragon.it Pp. 342 Pubblicato 8/10/2015 ISBN: 978-88-6598-632-5
Crediti fotografici:  per le immagini storiche si ringrazia l’archivio di Tresigallo, le immagini attuali sono state realizzate da Stefano Muroni e da Piero Cavallina

Tresigallo, da borgo agricolo a città industriale

Tresigallo è rivoluzionata non solo dal punto di vista urbanistico, ma cambia soprattutto l’economia dell’intera area: nell’intenzioni di Rossoni, Tresigallo doveva essere una cittadella di tecnici costruita da tecnici e lavoratori, dove il nucleo generatore fosse la fabbrica.

Viene prodotto un ammodernamento socio-economico della sua originaria configurazione di borgo agricolo padano, attrezzandolo – come in un vero polo agro-industriale di scala regionale – con fabbriche destinate a vari scopi: alla produzione di attrezzature meccaniche per l’agricoltura; al trattamento industriale dei prodotti agricoli proveniente dal circostante latifondo bonificato (canapa, barbabietola, latte, frutta); infine alla produzione di una merceologia autarchica, ricavata principalmente dalla lavorazione della fibra della canapa o dei suoi sottoprodotti.

Negli anni della rifondazione sono state rispettivamente impiantate: la distilleria della Società SADA., per l’estrazione dell’alcool dalle bietole speciali a tale sfruttamento, con annesso lo zuccherificio della Soc. ANB per la lavorazione delle bietole; il CAFIOC, per la trasformazione della canapa in fiocco tendente a ridurre al minimo l’importazione del cotone; la SIARI (Società Incremento Agricolo e Rinnovamento Industriale) per la lavorazione del latte con la sua trasformazione in burro, caseina e quindi lana sintetica; il magazzino del Consorzio Agrario Provinciale, per l’ammasso grano con annesso impianto meccanico dell’essiccatoio granone; il CATEXIL, per la trasformazione della canapa in fiocco pregiato; lo stabilimento della Soc. An. Canapificio, per la lavorazione della canapa verde; il magazzeno del CALEFO (Consorzio Agrario Lavorazione ed Esportazione Frutta e Ortaggi), per la raccolta e la selezione della frutta da esportazione; l’INTA (Industria Nazionale Tessile Autarchico), adibito alla trasformazione degli stracci in lana artificiale; la MALICA (Manifattura Lino Canapa), per la stigliatura della canapa verde; la SAAT, (Società Anonima Agricola Tresigallo), per l’allevamento dei bovini, la SAIMM (Società Anonima Industriale Meccaniche e Metallurgiche), per la produzione di macchine agricole; il grande magazzino della FEDERCANAPA, per l’ammasso e la selezione della canapa da esportazione; la CELNA (Cellulosa Nazionale), a quel tempo tra le più grandi d’Europa, per la produzione della cellulosa dal canapolo e dalla paglia.

Inoltre, escludendo le unità lavorative impegnate nei campi, nella costruzione di opere pubbliche, negli ammasso grano e ammasso canapa, come guardiani delle fabbriche e nelle istituzioni pubbliche, l’impegno di mano d’opera fu: distilleria e zuccherificio: 270 unità; CAFIOC: 200; S.I.A.R.I.: 50, CATEXIL: 60; Canapificio: 120; S.A.I.M.M.: 150; CEL.NA: 500; C.A.L.E.F.O.: 50.
In totale 1450 capi famiglia, cioè la metà di quelli collocati in Agro Pontino, senza mezzi straordinari e il tutto in una sola frazione.

 

Tresigallo ed il nuovo riassetto urbanistico

Dal punto di vista urbanistico, il tracciato della nuova strada Ferrara-Tresigallo, oltre a essere un importante snodo viario, permette di dislocare le industrie vicino al paese ma, nello stesso tempo, queste sono separate da tale arteria di traffico; gli insediamenti sono infatti a sud del paese, oltre la strada, e ad ovest, su di una strada di bonifica che collega Tresigallo con Jolanda di Savoia.

Inoltre, osservando la pianta del paese, il quale ha una strana e insolita forma trapezoidale, si può comprendere come la scelta di Rossoni non sia stata casuale: egli dispone le arterie stradali in modo che fossero sviluppate attorno a una “croce di via” formata dal nuovo centralismo di viale Roma in direzione est-ovest, e in direzione nord-sud dalla via Filippo Corridoni che, dallo stabilimento CAFIOC, arriva dritto sino al cimitero, utilizzando uno schema urbanistico basato sull’assialità. All’estremità di quest’ultima via erano quindi rappresentati simbolicamente il Lavoro e il Riposo Eterno.

Agli estremi di viale Roma vi erano a est la chiesa parrocchiale e a ovest la Casa dell’Opera Nazionale Balilla, quasi a testimoniare il bisogno di religiosità ma anche di svago terreno. Sui lati di viale Roma si insediarono le maggiori attività commerciali del paese e la piazza di fronte alla chiesa diventò il vero centro del sito.

Anche piazza della Rivoluzione, metà quadrata e metà circolare, somigliante a un grande anfiteatro, rivestì per Rossoni parecchia importanza, tanto da indurlo a donare al Comune, affinché ne ornasse la fontana, le quattro statuette di bronzo raffiguranti le gazzelle.

Con l’intervento di Rossoni, si è passati certo da un’architettura di terra a una architettura di fabbrica.

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Sito archeologico industriale: Tresigallo
Settore industriale: Misto – Città di fondazione
Luogo: Tresigallo, provincia di Ferrara, regione Emilia Romagna, Italia
Testo a cura di: Il testo è stato interamente prodotto da Stefano Muroni, autore del libro “Tresigallo, città di fondazione. Edmondo Rossoni e la storia di un sogno” edito da Pendragon www.pendragon.it Pp. 342 Pubblicato 8/10/2015 ISBN: 978-88-6598-632-5
Crediti fotografici:  per le immagini storiche si ringrazia l’archivio di Tresigallo, le immagini attuali sono state realizzate da Stefano Muroni e da Piero Cavallina

Tresigallo e l’esperimento sociale di Rossoni: la città corporativa

A Tresigallo non ci fu solo un’evoluzione industriale dell’intero paese, ma pure un cambiamento sostanziale dell’apparato lavorativo, sia a livello individuale che collettivo. Riprendendo il dibattito tra “città” e “azienda”, è evidente, una volta studiato il caso, che Tresigallo non rientra in quelle città denominate autarchiche o nate dall’autarchia, come Torviscosa, Carbonia e Arsia. Tresigallo non sarà la città del padrone, finalizzata allo sfruttamento delle risorse in loco e costituita da una società divisa in classi; come non avrà una produzione monofunzionale (Torviscosa la cellulosa; Carbonia il carbone; Arsia la lignite).

Il nuovo apparato economico-lavorativo tresigallese viene concepito, secondo le concezioni rossoniane, per risolvere problemi nuovi e ancestrali attraverso la collaborazione di classe, basata sulla concatenazione gerarchica delle competenze e l’accentuazione degli sforzi per la creazione di maggiori capacità tecniche, nella visione condivisa di un interesse collettivo superiore. Non c’è dunque un mero sviluppo industriale, ma tutta la comunità ogni giorno è chiamata individualmente a realizzarsi nel proprio lavoro.

Anche dal punto di vista architettonico, non è un caso se a Tresigallo, a fianco delle case degli operai, si trovino le villette degli industriali; vicino a quelle dei braccianti si trovino quelle degli impiegati: tutte le categorie sociali dovevano aspirare alla serena coabitazione, civile e lavorativa. Assieme si andava a lavoro, ognuno con le proprie mansioni, e assieme si ritornava. I giardini e le recinzioni delle varie case confinavano tra loro. Questo sistema lavorativo-civile, basato sulla collaborazione di classe e su una “democrazia architettonica”, permetteva di abbassare notevolmente il divario – sociale e culturale – tra bracciante e capitalista, manovale e capo d’industria. Per questi motivi Tresigallo “supera” le città autarchiche e quelle rurali dell’Agro Pontino e di tutt’Italia: per la sua concezione economica-civile e la sua realizzazione urbanistica. Tra le città di fondazione, diviene così – col senno di poi – la più completa tra le città nuove, la sola e vera città corporativa realizzata nel ‘900.

I risultati concreti della diffusa industrializzazione del paese furono un aumento demografico e soprattutto la terziarizzazione dello scenario socio-economico. Tresigallo non era più il borgo agricolo costituito da braccianti, ma questi si erano trasformati in operai una volta inseritisi nelle fabbriche di nuova costruzione. Qui, hanno poi incontrato tecnici provenienti da altri paesi che li hanno addestrati alle più aggiornate tecnologie della lavorazione del legno, del ferro, al montaggio di parti staccate, al lavoro con macchine utensili, a una cantieristica moderna. Molti di questi operai sono diventati artigiani.

 

Tresigallo e la rivoluzione antropologica

Ma la rivoluzione è stata di ampiezze maggiori: si sono attirati capitali e lavoro, create nuove attività economiche, è stato un vero e proprio cambiamento antropologico, che ha mutato usi, tempi di vita, ritmi di lavoro, prospettive di vita, sogni.

Con la costruzione della nuova Tresigallo, c’è stata una vera e propria rivoluzione antropologica.
Ancora adesso gli anziani tresigallesi, a quel tempo bambini, ricordano quegli anni di grande sviluppo. L’anziano Vittore Castaldini ci confida che:

«La manodopera veniva da tutta la provincia: vennero dottori, chimici agrari, imprenditori con le loro famiglie, le quali si sono inserite con quelle del paese. I tresigallesi sono venuti a contatto con la cultura portata appunto da queste persone. Quando senti i vecchi tresigallesi parlare, magari iniziano il discorso in dialetto ma lo finiscono sempre in italiano. Questo è ancora il residuo di quell’epoca: pensa ai barbieri, a chi aveva il negozio, a chi vendeva la frutta: da un giorno all’altro vennero in contatto con persone che venivano dalla provincia, dalla regione, dalle città. Furono quasi obbligati i cittadini di Tresigallo a iniziare a parlare l’italiano per farsi capire. E questa fu una vera rivoluzione linguistica».

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Sito archeologico industriale: Tresigallo
Settore industriale: Misto – Città di fondazione
Luogo: Tresigallo, provincia di Ferrara, regione Emilia Romagna, Italia
Testo a cura di: Il testo è stato interamente prodotto da Stefano Muroni, autore del libro “Tresigallo, città di fondazione. Edmondo Rossoni e la storia di un sogno” edito da Pendragon www.pendragon.it Pp. 342 Pubblicato 8/10/2015 ISBN: 978-88-6598-632-5
Crediti fotografici:  per le immagini storiche si ringrazia l’archivio di Tresigallo, le immagini attuali sono state realizzate da Stefano Muroni e da Piero Cavallina

Tresigallo ai giorni nostri

La meraviglia che emerge, a distanza di ottant’anni dalla rifondazione del paese, dalle parole di queste persone che hanno vissuto direttamente quell’epoca storica, esprime nella loro totalità il cambiamento avvenuto in pochissimi anni.

Alle soglie del 1939, sembrava che tutto procedesse per il meglio: un altro anno e Tresigallo sarebbe stato completato, con l’avviamento delle ultime fabbriche costruite e la costruzione degli ultimi edifici. Invece, nell’ottobre del 1939, Rossoni viene sollevato dalla carica di Ministro (la nascita di Tresigallo fu motivo di numerose accuse giunte a Rossoni da più parti, le quali hanno contribuito al suo allontanamento dalla carica di ministro). A peggiorare la situazione, è stata l’entrata in guerra da parte dell’Italia nel 1940, che provoca la chiusura definitiva dei lavori a Tresigallo; alcune fabbriche non entrano in funzione e solo una piccola parte di esse è stata riconvertita.

A distanza di ottanta anni, Tresigallo emerge tra le città di nuova fondazione caratterizzata dalla contemporaneità e dallo stile architettonico, che possiamo definire razionalista, per una visione dello stilema urbanistico diversa da quelle delle altre città di fondazione. Tresigallo rappresenta una felice quanto solitaria operazione di “democrazia urbanistica”.

Nel 2004 la Regione Emilia-Romagna ne ha riconosciuto l’appartenenza al prestigioso circuito delle Città d’Arte.

 

Visitare Tresigallo: luoghi capolavoro del razionalismo italiano

Piazza Repubblica
La piazza, che si colloca lungo l’asse urbano che collega il Cimitero (luogo della memoria) alla zona industriale (luogo del lavoro), crea un senso percettivo unitario esaltato dalla caratteristica forma a ferro di cavallo. Lo spazio è delimitato da una cortina di edifici pensati unicamente per il popolo, escludendo qualsiasi funzione di regime. Pur rappresentando il baricentro fisico del paese, infatti, la piazza non concentra in sé funzioni civili, politiche o rappresentative ma riveste un ruolo essenzialmente simbolico, formale e percettivo. Gli alti porticati su piazza della Repubblica ritagliano dunque uno spazio “ibrido”, in cui Pubblico e Privato cooperano per governare questo raffinato filtro spaziale, tra piazza ed abitazioni. L’unico edificio pubblico a funzione collettiva è il teatro, elemento mediano tra la piazza e viale Roma e accessibile da più lati.
E’ probabile che la forma ad arena fosse l’espressione di un desiderio diretto di Rossoni per fornire alla popolazione uno spazio attrezzato per spettacoli musicali e teatrali all’aperto; ipotesi che spiega la significativa assenza di quell’usuale palcoscenico retorico rappresentato dalla torre littoria, sostituito da quello spazio balconato, aggettante sulla piazza. Da notare inoltre che – andando contro la tradizione italiana – la piazza fu impreziosita dalla “passeggiata”: due filari di pini marittimi delineavano il perimetro dello spazio pubblico.

Chiesa e portici
La chiesa di Sant’Apollinare Martire, dall’originale facciata settecentesca, occultata negli anni ‘30, ed interamente rivestita con lastre di travertino impreziosite da bassorilievi in marmo candido, rappresenta l’unico episodio del genere nell’ambito delle differenti rifondazioni realizzate in Italia. Il nuovo intervento ha nascosto le origini romaniche dell’edificio (di cui si hanno notizie a partire dal 1044 d.C. e la cui unica testimonianza rimane la torre campanaria) e successivamente modificato in epoca barocca.
Il porticato della Chiesa, dall’impianto curvilineo e dalla forte simmetria, enfatizza prospetticamente l’intero snodo urbano che si apre su Via Verdi (un corso alberato che accoglie l’architettura sociale); cadenza il cornicione del lungo porticato che abbraccia la chiesa parrocchiale, una lunga sequenza di lapidee formelle in bassorilievo, che, con rara efficacia epigrammatica, raccontano didascalicamente al religioso pellegrino la cultura agricola della realtà rurale tresigallese pre-rossoniana, studiata e analizzata da Don Chendi, agrario locale del ‘600 (come la pigiatura dell’uva, la raccolta della frutta, la raccolta del granturco, attrezzi agricoli).
Un disegno di rara eleganza realizzato in struttura di cemento armato rivestito da intonaco in graniglia che simula, con incredibile efficacia, gli elementi lapidei.

Scuola Elementare
Uno degli edifici maggiormente rappresentativi del paese è la scuola elementare Forlanini. L’edificio era stato progettato per contenere dodici aule, con l’ingresso principale su piazzale Forlanini e due corpi laterali allungati. In realtà il numero delle aule è stato ridotto e il corpo laterale di destra non è mai stato costruito. Nel tempo è stata ampliamente rimaneggiata mediante interventi pesanti sulla forometria delle porte e delle finestre che ne hanno alterato l’immagine. La volumetria complessiva resta di fatto inalterata permettendo di apprezzare comunque la forma e l’imponenza dell’edificio. Attualmente è in corso uno studio per il recupero filologico dell’edificio.Il disegno delle aperture superiori è stato ampiamente rimaneggiato.

Campo Sportivo
Vero e proprio arco di trionfo, risulta poderoso ma privo di decorazioni.
Stiamo parlando dell’ingresso monumentale del campo sportivo (piazzale Forlanini) che costituisce, insieme alle facciate degli edifici circostanti, una vera e propria quinta scenica per questo polo urbano a carattere sociale. Realizzato in marmo travertino è il simbolo della Tresigallo razionalista; l’arco trionfale, espressione di quella romanità di cui il fascismo intendeva riappropriarsi, diventa una nuova porta del centro abitato alla quale si affiancava un portale di raccordo, ora rimosso. L’edificio ospitava al suo interno l’appartamento del custode del campo sportivo svolgendo pertanto una funzione che non era solo monumentale. L’edificio è stato restaurato nel 2006.

Sala da ballo Domus Tua
Sorta nella prima metà degli anni ‘30, la Domus Tua, nata come sala da ballo, aveva in origine uno sviluppo planimetrico maggiore. Negli anni ‘90, in seguito ad un incendio, il corpo retrostante è stato demolito, per lasciare spazio ad un complesso residenziale. La snella torretta enfatizza la funzione scenica dell’edificio, in posizione di ingresso al paese.
L’edificio è stato restaurato è convertito a struttura recettiva nel 2009.

Colonia post-Sanatoriale
La costruzione della Colonia Post-Sanatoriale fu appaltata alla cooperativa Muratori e Decoratori di Carpi, e iniziò ufficialmente l’8 febbraio del 1936. La ditta era diretta dal geom. Ferretti, l’architetto Turchi e l’assistente Bassoli. La Colonia Post-Sanatoriale fu realizzata a 5 piani (compreso l’interrato), con muri a intercapedine e col recinto perimetrale.
Al tempo dell’edificazione ospitava sole donne che, durante il periodo di convalescenza controllata, venivano preparate al reinserimento lavorativo apprendendo nozioni di lavoro professionale.
La Colonia – ultimo dell’intervento rossoniano – collocata al limite dell’abitato, centrale rispetto al parco che lo circonda, rappresenta per forme ed espressione architettonica une delle opere più importanti dell’ing. Frighi.
Spunta di scorcio, tra la rigogliosa vegetazione del parco circostante, l’aggetto del vano scale del corpo centrale (soluzione caratteristica dell’architettura “Novecentista” nazionale). Intorno all’impianto, un ricco polmone verde maschera al visitatore l’edificio sanatoriale, infilato nella scenografia del viale d’accesso. L’ingresso al parco circostante è sottolineato da due edifici gemelli di servizio, mentre l’imponente corpo principale a blocco, ancora parzialmente in funzione, rimane arretrato e conserva, in alcune sue parti, infissi e rivestimenti originari. Interessante il muro di cinta ora vincolato e, in particolare l’originale esedra che affaccia su via del Mare.
Degni di particolare nota sono il vano scale dell’edificio centrale che con la forma elicoidale produce un’affascinante ritmia spaziale e la cappella per funzioni religiose.

Albergo Domus Tua
L’edificio, costituito da un corpo centrale parallelepipedo con due volumi semicircolari apposti ai lati, deve la sua imponente massa volumetrica alla destinazione d’uso pubblica che ospitava in origine (era di fatti l’albergo di lusso Domus Tua). In questo caso le modifiche non interessano solo il sistema delle finiture ma, per adeguamenti funzionali, sono state aggiunte delle parti che ne hanno alterato l’originale disegno. L’edificio è stato ristrutturato e destinato a Casa Protetta nel 1990.

Casa del Fascio
La ex Casa del Fascio è uno degli edifici più eleganti e rappresentativi del regime, la cui monumentalità è espressa dallo sfalsamento dei volumi che articolano la facciata e dall’uso di materiali di pregio come il travertino romano.
Inizialmente, doveva sorgere sul nodo urbano di fronte alla Casa del Balilla, andando idealmente a delineare il fulcro dell’attività fisica (in contrapposizione a quella spirituale, rappresentata dalla chiesa, situata all’estremità opposta del viale principale del paese). Per problemi legati all’acquisto dell’area prescelta, la casa littoria venne realizzata lungo l’asse urbano di viale Roma in una posizione anomala perché priva del consueto slargo antistante per le adunate e perché percettivamente meno incombente sul resto della città. Per aumentare l’importanza e la forte valenza simbolica furono realizzati ai suoi fianchi due edifici gemelli utilizzando particolari espedienti prospettici e cromatici: l’altezza dei marciapiedi, il diverso allineamento sul fronte stradale e le differenti cromie dei materiali utilizzati nelle due fasce che compongono ciascun fronte sottolineano la monumentalità della Casa del Fascio e la verticalità della sua torre. Al piano terra erano collocate tutte le attività di controllo, come gli uffici amministrativi e la segreteria principale di partito, la sala riunioni ed adunate; mentre al primo piano gli ambienti accoglievano le sale del dopolavoro, oltre all’arengario, al balcone per le personalità illustri alla sinistra e al balcone per gli ospiti alla destra dell’arengario. I solai realizzati nella Casa del Fascio di Tresigallo sono in latero-cemento gettati in opera con elementi in laterizio Sap, prodotti dalle Fornaci RDB di Piacenza. Oggi è la caserma dei carabinieri.

Bar Roma
Secondo dei due edifici gemelli nati per enfatizzare l’imponenza della Casa Littoria (grazie alla posizione arretrata in pianta, al gioco cromatico alternato delle fasce del fronte e agli allineamenti orizzontali) conserva gran parte degli elementi originali. L’abbandono in cui versa, da un lato, ha evitato la sostituzione di dettagli di pregio (tra i quali spiccano gli infissi in ferrofinestra al piano terra e nel vano scale e ilo rivestimento del piano terra in litoceramica).
La scritta BAR ROMA, (dell’epoca, realizzata in pietra artificiale), ricorda caratteri futuristici.

Assicurazioni Generali Venezia
L’edificio è dedicato alla compagnia Assicurazioni Generali. Il corpo dell’edificio risulta interessante per la conformazione dei volumi che presentano forme pure e si impongono in modo deciso sulla scenografia di viale Roma. Edificio di rappresentanza, mantiene sulla facciata il bassorilievo con il simbolo dell’attività che ospitava. Il candore del finto travertino, scansito da piattabande murarie, ne segnala l’esemplare originalità.

Casa del Balilla
L’ex Casa Balilla (poi Casa della G.I.L) era il luogo della formazione fisico-ideologica dei giovani.
A Tresigallo, la Casa della GIL si propone come tipo edilizio isolato, dove il linguaggio appare semplificato, decisamente innovativo rispetto al fare architettonico del tempo, in linea con le avanguardie nazionali. I sottili aggetti in cls armato, le pareti curve, l’elemento architettonico della torre, il disegno stilizzato degli infissi, la bicromia giallo e rosso delle facciate sono solo alcune delle caratteristiche peculiari dell’edificio che lo fanno rientrare appieno tra le architetture del moderno italiano. L’impianto planimetrico della Casa del Balilla tiene fede alle disposizioni dettate dalla manualistica dell’epoca: nucleo ordinatore della Casa è la palestra di cui furono fissati orientamento, dimensioni, condizioni di illuminazione, rivestimenti per la pavimentazione e le pareti. Grandi aperture rivolte a sud-ovest, opportunatamente protette dai raggi solari e piccole aperture poste nella parte superiore, per potervi inserire le giuste attrezzature, illuminano un vasto spazio rivestito di sughero e finiture a gesso lisciato, per poter lasciar esercitare contemporaneamente 40 ragazzi, su un piano sopraelevato rispetto al piano stradale, in condizioni di igiene. Ad essa si affiancano gli spogliatoi, i servizi igienici e i locali accessori: in dimensioni decisamente più ridotte e distinti in volumi conclusi, come la sala lettura e la torre della scala, sono tra loro collegati e disposti attorno alla palestra.

Bagni
L’edificio, costruito in contemporanea con la Casa della GIL di cui era a servizio, collegato da un unico accesso e da aree sterne comuni, era destinato a spogliatoi e bagni per i giovani inquadrati nelle formazioni propagandistiche del regime. Funzionò come tale per un solo anno dopo di che fu abbandonato e negli anni fu radicalmente modificato con superfetazioni che ne hanno reso illeggibile il disegno originale. Restaurato nel 2010, oggi stupisce su via del lavoro, per volume e colore, essendo tornato alla sua immagine di estremo razionalismo e pulizia che lo aveva caratterizzato negli anni della sua costruzione.

Cimitero
Il Cimitero, il cui progetto risale al 1934 è situato al termine dell’asse prospettico che taglia il paese longitudinalmente e collega idealmente il cimitero alle fabbriche, attraverso piazza della Repubblica, con evidenti connotati simbolici. Il cimitero è circondato da un muro di cinta che viene spezzato, per sottolinearne l’ingresso, da un poderoso portale a trifora a chiusura del segmento urbano sopra citato.
Al suo interno è custodita la tomba celebrativa di Edmondo Rossoni – protagonista e fautore della rifondazione razionalista di Tresigallo – destinata ad ardere in modo perenne sullo svettante braciere di questa mitica ara. Il progetto del mausoleo è opera del valente architetto fiorentino Ugo Tarchi, rimasto nella storia dell’architettura del ‘900 per la realizzazione, tra le altre cose, dello straordinario Mausoleo dedicato a don Luigi Sturzo realizzato a Caltagirone.
All’entrata, due bassorilievi dell’epoca, stranamente asimmetrici, raffiguranti la madonna con in braccio Gesù bambino. Altra particolarità del luogo: è l’unico cimitero italiano dove, nel suo progetto originale, non compare il simbolo della croce.
Durante l’avvicinamento pedonale – chissà se qualcuno se ne è accorto – è particolarmente apprezzabile l’immagine, composta all’interno del fornice principale del portale, dell’angelo – opera dell’importante scultore Enzo Nenci – che sembra scivolare e nascondersi al di sotto della monumentale fiaccola in marmo verde del Brasile; mentre, quando ci allontaneremo dal cimitero – fateci caso – l’angelo, magicamente, ricomparirà, come per librarsi al di sopra del mausoleo e, sembrerebbe, quasi a proteggere i cittadini e la cittadina di Tresigallo, la Città d’Arte del ‘900. Sarà il volo dell’angelo che ci riaccompagnerà al centro di Tresigallo, dove si concluderà la nostra visita.

Sito archeologico industriale: Tresigallo
Settore industriale: Misto – Città di fondazione
Luogo: Tresigallo, provincia di Ferrara, regione Emilia Romagna, Italia
Testo a cura di: Il testo è stato interamente prodotto da Stefano Muroni, autore del libro “Tresigallo, città di fondazione. Edmondo Rossoni e la storia di un sogno” edito da Pendragon www.pendragon.it Pp. 342 Pubblicato 8/10/2015 ISBN: 978-88-6598-632-5
Crediti fotografici:  per le immagini storiche si ringrazia l’archivio di Tresigallo, le immagini attuali sono state realizzate da Stefano Muroni e da Piero Cavallina




Il Museo Agricolo e del Vino Ricci Curbastro in Franciacorta compie 30 anni

Il Museo Agricolo e del Vino Ricci Curbastro in Franciacorta, ci accompagna alla scoperta della antiche tradizioni e delle tecniche del lavoro legate all’economia agricola.

 

Il Museo Agricolo e del Vino Ricci Curbastro è il frutto della più che trentennale ricerca di Gualberto Ricci Curbastro, uno dei dieci fondatori, con il Disciplinare del 1967, della moderna Franciacorta.
Inaugurato nel luglio 1986 e negli anni continuamente ampliato, il museo è una realtà unica in Franciacorta che conserva nei rustici dell’Azienda Agricola Ricci Curbastro migliaia di oggetti testimoni del lavoro agricolo d’un tempo.

Le radici della stessa Ricci Curbastro, antica famiglia di agricoltori, si fondano su tradizione storia e cultura ramificandosi nella passione per il mondo agricolo e per il proprio mestiere. La Ricci Curbastro, Azienda Agricola storica, è infatti attiva nella produzione di vino almeno fin dal 1885, anno dell’etichetta più antica ancora conservata, ma anche nel settore zootecnico e agricolo più in generale.

Il Museo Agricolo e del Vino Ricci Curbastro valorizza le tradizioni raggruppandole per temi:

Zootecnia. La “sala della veterinaria” ospitata nella vecchia scuderia, contiene attrezzi per la lavorazione del terreno quali vecchi aratri in legno o del fieno con insoliti forconi realizzati in un unico pezzo piegando i rami degli alberi.
Molto spazio è dedicato alla veterinaria e alla cura degli animali, includendovi l’antica arte dei maniscalchi.
Carri agricoli, ruote, gioghi, basti, strumenti da carrettieri completano il panorama del lavoro dell’uomo con l’ausilio degli animali.

Lavori artigiani e trasformazione. L’antico fienile ospita strumenti per le attività artigianali come la filatura di canapa, lino e seta, la tessitura, la falegnameria, la caccia, il banchetto di un calzolaio.
Nella sala sono inoltre conservati oggetti comuni della vita quotidiana delle cascine quali lame e utensili per la lavorazione della carne e dei salumi, scaldini e scaldaletto, ferri da stiro, lampade e portacandele, macina orzo e caffè, fino ad una curiosa macchina per fare le caramelle.

Enologia e Viticoltura. La “sala dell’enologia” è dedicata alla vite, al vino e all’attività di bottaio includendo anche una ricca collezione di torchi e vecchie tappatrici.
Il cuore della storia vitivinicola della Franciacorta raccontato da pezzi unici come un torchio orizzontale del 1893 costruito da Arnaldo Zanelli a Palazzolo s/O (Brescia), un torchio dal grande basamento in pietra arenaria grigia proveniente dalla cava del Vanzago in Capriolo (Brescia). Ed ancora: un torchio idraulico della fine del XIX secolo, torchi montati su carri trainati da cavalli, una tra le prime pigiadiraspatrici costruita nel 1895 dai F.lli Vitali a Villongo S. Alessandro (Bergamo).

Il Museo si allarga anche in cantina, ove sono esposte tappatrici, pompe da vino e bascule, per creare un unico percorso tra passato e presente, tra tradizione, fortemente mantenuta e valorizzata, e innovazione, uno dei punti di forza della Ricci Curbastro e del territorio Franciacortino.

Le attività  del Museo Agricolo e del Vino Ricci Curbastro

Scopri il vigneto. Nel 2012 nasce l’ultimo progetto in ordine di tempo www.scopriilvigneto.it
Il vigneto, la campagna, il paesaggio tradizionale non più raccontati attraverso immagini e documentari pur ben fatti ma luoghi aperti, da calpestare, da toccare con mano, il tutto mentre si sperimentano nuove varietà di vitigni.
Nel suo insieme “scopri il vigneto” è un percorso natura ad uso didattico per le scuole destinato a ricerche storiche (la seta e l’industria tessile capriolese, la viticoltura e l’enologia in Franciacorta), ambientali (agricoltura a basso impatto ambientale, ricerca di nuove varietà), naturalistiche (nidificazione degli uccelli insettivori, scoperta di specie arboree e arbustive tipiche e loro proprietà).

Acinello – la mascotte del Museo Ricci Curbastro. Nel 2001 il Museo si apre ai giovani con la nascita della mascotte Acinello che accoglie gli studenti guidandoli alla scoperta del mondo del vino.
Il percorso tra Museo e cantina si chiude con una degustazione professionale: nascono i Laboratori di educazione al gusto ed all’olfatto.

Sala Conferenze. Nel 1995 viene aperta la nuova sala conferenze, lo spazio che mancava, anch’essa ricca di vetrine di esposizione. Nacque anche il Progetto la Piazzetta del Villaggio: conferenze, mostre, concerti, dibattiti, un luogo di incontro o meglio la Piazza del Villaggio dove trovarsi di tanto in tanto a scambiarsi opinioni Informazioni, idee. Un programma tuttora attivo che porterà l’Azienda alla finale del Premio Impresa e Cultura nel 2004.

Il Museo Agricolo e del Vino Ricci Curbastro compie 30 anni

Nel 1967 Gualberto Ricci Curbastro e altri 10 sognatori immaginarono che una denominazione d’origine potesse cambiare il corso di uno sviluppo già scritto per la loro terra, la Franciacorta, che pareva destinata a diventare un immenso territorio industriale alle porte di Brescia. Ebbero ragione e oggi, neanche cinquant’anni dopo, la Franciacorta non è solo un’area vitivinicola d’eccellenza, ma anche un distretto con oltre il 70% di vigneti biologici, dove 18 Comuni ragionano insieme di sviluppo sostenibile e uso del territorio.

Vent’anni dopo, nel 1986, Gualberto Ricci Curbastro capisce che lo sviluppo vitivinicolo della Franciacorta cambierà per sempre il suo volto agricolo. Sogna di salvare la memoria storica di ciò che era prima del cambiamento e dà vita a Capriolo, accanto alla sede della sua cantina, al Museo Agricolo e del Vino Ricci Curbastro che viene inaugurato sabato 12 luglio 1986.

A ricordare il trentennale, è stata realizzata una capsula destinata a fissare i tappi dei Franciacorta raffigurante il logo del Museo, che si andrà ad affiancare, per la gioia dei collezionisti, alle altre capsule della serie dei personaggi storici dell’azienda.

Informazioni
MUSEO AGRICOLO E DEL VINO RICCI CURBASTRO
Via Adro, 37 – Capriolo – Brescia
Tel. +39 030736094 www.riccicurbastro.it

Sito archeologico industriale: Museo Agricolo e del Vino Ricci Curbastro
Settore industriale: Agricolo e vitivinicolo
Luogo: Capriolo (Franciacorta), Brescia, Lombardia, Italia
Proprietà e Gestione: Ricci Curbastro www.riccicurbastro.it
Testo a cura di: Az. Agr. Ricci Curbastro




La Fondazione G. Fedrigoni ISTOCARTA a Fabriano “città della carta”

La Fondazione G. Fedrigoni, Istituto Europeo di Storia della Carta e delle Scienze Cartarie (ISTOCARTA), nasce l’8 marzo 2011 a Fabriano – “città della carta” per antonomasia.

 

Ente non-profit che contribuisce alla promozione degli studi di storia della carta e delle discipline connesse, ed allo sviluppo e divulgazione delle scienze cartarie, fortemente voluta dalla fondatrice Fedrigoni SpA – cartiera veronese che nel 2002 ha acquisito le Cartiere Miliani Fabriano, la Fondazione G. Fedrigoni gestisce l’importante patrimonio archivistico, librario e scientifico e tecnologico ereditato dalle storiche cartiere fabrianesi.

La tradizione cartaria della “città della carta” affonda le sue solide radici già dal sec. XIII. Una tradizione plurisecolare che subisce un’importante trasformazione alla fine del 1700. Nel 1782, infatti, nasce, grazie a Pietro Miliani, l’omonima Cartiera che in breve tempo assorbe parte degli opifici concorrenti e raggiunge un alto grado di efficienza degli impianti e di sviluppo commerciale, dovuto soprattutto alle capacità imprenditoriali del titolare, il quale con sicurezza e tenacia punta al miglioramento qualitativo del prodotto, affrontando ingenti spese per rinnovare l’attrezzatura degli opifici, fino a produrre carta tanto pregiata da essere apprezzata da famosi tipografi ed incisori tra i quali Bodoni, Rosaspina, Morghen, ecc. A Pietro succedono il nipote Giuseppe e il pronipote Giambattista che proseguono lo sforzo di acquisizione delle cartiere concorrenti e la meccanizzazione della produzione, oltre allo sviluppo qualitativo della lavorazione a mano delle carte pregiate e carte valori.

La Fondazione G. Fedrigoni ISTOCARTA ha sede nel maestoso complesso storico delle Cartiere Miliani che presenta un impianto planimetrico a “C” tipico dell’industria cartaria del XVIII secolo (già idealmente rappresentata nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert del 1751) con un corpo longitudinale principale e due ali trasversali poste agli esterni, ed un ulteriore elemento longitudinale che collega le due ali trasversali, fungendo da ingresso, che fa assumere al complesso una forma chiusa, a corte. Un caso singolare in quanto si tratta di un edificio nato appositamente per ospitare un’attività produttiva evoluta, moderna, distante dal, più frequente (in questo campo), riuso di una struttura esistente o dall’uso di una forma architettonica non specifica per questo tipo di attività (v. Archeologia Industriale nelle Marche. L’Architettura a cura di Alessia monti e Paolo Brugè, p. 67). Un’architettura monumentale che rimanda all’epoca rinascimentale e barocca caratterizzata da una perfetta simmetria degli elementi, che oggi – utilizzata solo in parte – ospita alcuni uffici della Fedrigoni SpA, lo splendido l’Archivio Storico con i suoi trecento metri lineari di documenti datati a partire dal 1782 (data di fondazione delle Cartiere Miliani) ed annessa “biblioteca” specializzata in ambito cartario, e gli oltre “duemila metri quadrati” di strumenti per la fabbricazione della carta a mano e a macchina.

L’Archivio delle Cartiere Miliani

L’Archivio delle Cartiere Miliani è il primo Archivio d’Impresa dichiarato di «notevole interesse storico» in Italia, con provvedimento vincolistico emesso il 20 luglio 1964 dal Professor Emerito della Sapienza di Roma, Elio Lodolini, allora Soprintendente Archivistico per le Marche. Le fonti documentarie inventariate ed ordinate in serie e fondi, risalgono alla fondazione delle Cartiere Miliani nella seconda metà del sec. XVIII, e ne illuminano l’attività tecnica ed economica, i problemi seriali relativi ai lavoratori ivi occupati, i rapporti con esponenti del mondo delle lettere, delle arti e della politica, le relazioni commerciali di rilievo internazionale (v. L’Archivio Storico delle Cartiere Miliani di Fabriani di Valeria Cavalcoli, Fabriano 2014, P. 17. Rist. an. edita dalla Fondazione G. Fedrigoni ISTOCARTA): i copialettere dal 1783, documentano l’antica corrispondenza tra Pietro Miliani e la fittissima rete commerciale estesa in tutto il mondo. Tra la clientela emergono nomi importanti di personalità ed istituzioni pubbliche e private. Da Antonio Canova, Giambattista Bodoni (tipografo), Francesco Rosaspina (incisore), i fratelli Filippo e Giorgio Harckert, le famiglie nobiliari Leopardi, Torlonia, Colonna, Mastai Ferretti, a vari Istituti di Credito (Banca d’Italia, Monte dei Paschi, Banca Commerciale Italiana), note aziende del Made in Italy (FIAT, Pirelli, Fernet Branca, Borsalino, Mont Blanc, ecc.). Di rilevante importanza sono la fototeca con più di 1.287 fotografie, recentemente digitalizzate, testimonianza del patrimonio archeologico industriale, architettonico, paesaggistico e degli aspetti identitari della società e della cultura cartaria dal 1871, e la raccolta di filigrane realizzata nel 1946 dal consigliere delegato delle Cartiere Miliani, Luigi Tosti duca di Valminuta, ricca di oltre 1.500 esemplari.

Il patrimonio industriale cartario della Fondazione G. Fedrigoni ISTOCARTA

Un ricco patrimonio archivistico, le cui fonti documentarie hanno fornito e forniscono tutt’ora un valido contributo per gli studi di storia della carta e delle scienze e delle tecniche cartarie, tanto più se affiancate da un patrimonio archeologico, scientifico e tecnologico di inestimabile valore, rappresentato da macchinari e strumenti indispensabile ai fine della fabbricazione della carta: un impianto di pile idrauliche a magli multipli risalente alla fine del 1700 – necessario alla pestatura degli stracci (da cui si ricavava la poltiglia per l’impasto) ed attivo fino alla metà del Novecento – era azionato dall’energia idrica fornita da corsi d’acqua adiacenti alla Cartiera; 2.300 forme (vergate e veline), per la produzione della carta a mano, tutte filigranate; 793 tele metalliche cilindriche per la produzione della carta a macchina in tondo, di un metro di diametro e circa due metri di larghezza, anch’esse con pregiatissime filigrane, destinate a rivestire il tamburo creatore; e vari strumenti annessi alla realizzazione di forme e tele, come gli oltre n. 3.000 punzoni in legno, bronzo e rame necessari per imprimere la filigrana in chiaro-scuro sulla tela (velina).

Le 2.300 forme, datate dalla prima metà dell’Ottocento, sono ognuna differente dall’altra. Ogni forma riporta sulla superfice della tela una filigrana, “segno” o “marca” realizzata con filo metallico di argentana, rame o bronzo modellato a mano, cucita manualmente o saldata a stagno (filigrana in chiaro); oppure impressa sulla tela attraverso un punzone (filigrana in chiaro, in scuro o in chiaro-scuro). Le filigrane realizzate con filo metallico, sono veri capolavori di oreficeria (ritratti di papi, principi, principesse come Francesco Giuseppe I ed Elisabetta d’Austria, Papa Pio IX) e quelle in chiaro-scuro (filigrana artistica), modellano la tela metallica della forma riproducendo ritratti di personaggi famosi della storia italiana ed internazionale o particolari di opere d’arte (Ludwig van Beethoven, Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, “L’Adorazione dei Magi” del Gentile da Fabriano, “La Madonna della Seggiola” di Raffaello Sanzio, ecc.).

La mole e l’importanza del patrimonio archivistico, librario e scientifico e tecnologico cui è dotata la Fondazione G. Fedrigoni ISTOCARTA, la rendono, nel suo genere e per i suoi scopi, un’istituzione unica in Italia, grazie alla fondatrice Fedrigoni S.p.A. che ha deciso di offrire un ampio sostegno alla cultura, alla ricerca scientifica e tecnica, alla tutela e valorizzazione di questo patrimonio, fonte di ricchezza e sviluppo intellettuale, sociale ed economico.

La Fondazione G. Fedrigoni ISTOCARTA è nella Rete di Archivi d’Impresa, progetto della Direzione Generale per gli Archivi e collabora allo sviluppo di temi e percorsi del Portale del Sistema Archivistico Nazionale (SAN) e del Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche (SIUSA). È tra i soci di Museimpresa, l’associazione italiana dei musei e degli archivi d’impresa, promossa da Assolombarda e Confindustria.

Sito archeologico industriale: Fondazione G. Fedrigoni ISTOCARTA
Settore industriale: Industria cartaria
Luogo: Viale Pietro Miliani 31/33 60044 Fabriano (AN) – Marche – ITALY
Proprietà e Gestione: La Fondazione G. Fedrigoni ISTOCARTA è stata fondata dalla Fedrigoni SpA www.istocarta.it
Testo a cura di: Ufficio Comunicazione Fondazione G. Fedrigoni ISTOCARTA
Immagini: Le immagini pubblicate sono coperte da Copyright. © Fondazione G. Fedrigoni ISTOCARTA




La Via della Carta: le cartiere di Lucca e il turismo industriale

Dalla fabbricazione della carta al turismo industriale, nuova vita alle cartiere di Lucca.

Storia della carta a Lucca

La fabbricazione della carta a Lucca ha origini molto lontane nel tempo ed è strettamente legata alla ricchezza di acqua presente nel territorio.
Una prima importante traccia è datata 1307, anno in cui viene creata la Corporazione dei Cartolai a Lucca, i cartolai si dedicavano alla produzione di carta pergamena per scrivere (prodotta con il vello degli animali – ovini e caprini – anche chiamata cartapecora).

La prima vera cartiera a Lucca nasce nella metà del ‘500 nel borgo di Villa Basilica ad opera di Vincenzo Busdraghi. La sede è un vecchio mulino, attrezzato e restaurato, grazie anche all’aiuto economico della famiglia nobile lucchese Buonvisi. Per circa un secolo questa rimane l’unica cartiera nel territorio lucchese.

Intorno alla metà del ‘600 alcune importanti famiglie nobili lucchesi, ed in particolare la famiglia Biagi, cominciano a dedicarsi al business della carta e, alla fine del secolo, nello Stato di Lucca si contano ben 8 cartiere: la cartiera Buonvisi, la cartiera Montecatini a Piegaio, la cartiera Biscotti a Villa Basilica, la cartiera Tegrimi a Vorno, la cartiera del capitano Francesco Pacini a Villa Basilica, la cartiera Grassi, la cartiera di Anchiano e la cartiera di Collodi.

In questo periodo le cartiere dell’area lucchese sono generalmente su tre piani, che corrispondono alle fasi di lavorazione della carta: al pianterreno ci sono il tino (la vasca dove vengono lavati gli stracci) e le pile (sorta di magli di legno mossi ad intervalli regolari da mulini ad acqua per la triturazione degli stracci); al primo piano vengono preparati gli stracci, ultimati i lavori di rifinitura della carta ed eseguito il confezionamento in risme e in balle; all’ultimo piano trova posto lo stenditoio per l’asciugatura.

Le 8 cartiere di questo periodo raggiungono una produzione annuale di 16.000/20.000 risme di carta. Tuttavia proprio questa fioritura di cartiere e la conseguente prosperità portano, verso la fine del ‘600, alla guerra degli stracci: una contesa tra alcuni mercanti che, salpando dal porto di Viareggio vogliono esportare gli stracci, e gli imprenditori delle cartiere, che desiderano conservare in patria la materia prima. Ad ottenere la meglio sono i fabbrichieri della carta, così che l’esportazione degli stracci venne limitata e regolamentata. Il ‘700 si caratterizza come teatro di forti sviluppi nel settore e la carta continua ad essere fonte di un’intensa attività a Lucca.

Si arriva così alle soglie del XIX secolo, che porta con sé la rivoluzione della carta paglia: un farmacista di Villa Basilica, Stefano Franchi, inventa per caso la carta-paglia, ossia la carta gialla usata per imballare. Si tratta di un composto di paglia, calcina e acqua. Grazie a questa “invenzione” può essere creato un prodotto di facile rifornimento e a basso costo. Il successo ottenuto è davvero notevole: basti pensare che nel 1911 la provincia di Lucca “vanta” 106 cartiere artigianali e a conduzione familiare, con circa 1.400 addetti in totale soprattutto donne. Un contesto nel quale proprio la carta-paglia continua ad essere il prodotto principale con 65.000 quintali di produzione l’anno. Tanta è l’importanza della carta-paglia, che proprio nel quartiere lucchese di Borgo Giannotti viene stabilito il prezzo della materia prima (la paglia) e definito il costo di riferimento per tutta Europa.

Nel dopoguerra diverse cartiere attuarono una profonda riconversione industriale modificando i sistemi di lavorazione della carta. Infatti la materia prima che veniva sempre più usata era rappresentata da “carta da macero” e l’asciugamento avveniva a “caldo”: la carta usciva dalla macchina già completamente asciutta. Con questo sistema si sono resi inutili i locali adibiti a “spanditoi” che poi con il passare del tempo sono andati in decadenza. Questa nuova lavorazione ha procurato un notevole incremento della produzione in termini quantitativi; la forza idraulica venne sostituita dalla forza motrice dell’energia elettrica e si rese necessario avere aree a corredo sempre più ampie.

Nel 1971 le cartiere di Lucca sono 211 e proprio negli anni Settanta la carta-paglia viene sostituita dalla produzione di tissue e cartone ondulato, finisce l’era della tanto amata “carta gialla”e nel 1976 una legge, rivolta a proteggere l’acqua come bene ambientale, ne rende, infatti, troppo onerosa la produzione.

Principalmente a causa della mancanza di aree adeguate le storiche famiglie Villesi che hanno prodotto carta in questa valle, si sono trasferite nella piana Lucchese dove, in pochi decenni, hanno permesso a Lucca di diventare il polo cartario più importante d’Italia ed uno dei più importanti d’Europa. Tra queste famiglie i Pasquini, i Perini, e gli Stefani,oggi sono rimaste in attività nella valle di Villa Basilica solo una decina di cartiere.

Video “La carta ritrovata”

https://www.youtube.com/watch?v=vt2y6fhDpEA

Quale futuro per le storiche Cartiere di Lucca?

Cattedrali della carta, i vecchi ruderi non sono stati salvati e riutilizzati in un territorio ad alta vocazione turistica : una sorta di terra di mezzo tra Collodi famosa per “Pinocchio” e Bagni di Lucca antica città termale affollata in ogni periodo dell’anno di turisti inglesi sulle tracce dei poeti Shelley e Byron.

Il turismo non è ancora vissuto come risorsa economica e cosa ancora più grave non esiste una coscienza turistica: consapevolezza dell’importanza che ha e può avere il turismo dal punto di vista economico, occupazionale, di scambio culturale e arricchimento linguistico .

Le istituzioni stanno cominciando a muoversi adesso ed è in preparazione un offerta turistica e culturale che dovrà essere collegata ai sistemi turistici già presenti – dal Parco di Pinocchio a Collodi alle Terme di Montecatini, dal turismo culturale di Lucca e Pistoia, al turismo balneare della Versilia passando dalle strade dell’olio e del vino e il carnevale di Viareggio – si chiamerà La Via della carta” attuato dalla Lucense società pubblico/privata che opera nei settori della ricerca tecnologica industriale.

Sito archeologico industriale: le Cartiere di Lucca
Settore industriale: Industria cartaria
Luogo: Lucca, Toscana, Italia
Proprietà e Gestione: varia
Testo e immagini a cura di: Michela Panigada




L’Archivio Storico Olivetti di Ivrea

L’Archivio Storico Olivetti di Ivrea (TO) conserva la documentazione di una delle aziende che ha segnato la storia economica del nostro paese, non solo da punto di vista tecnologico, ma anche per la cultura del lavoro che in essa si perseguiva.

La Olivetti – cenni storici

Costituita ad Ivrea nel 1908 come “prima fabbrica nazionale di macchine per scrivere”, fin dagli inizi l’Olivetti si distingue per l’attenzione alla tecnologia e all’innovazione, la cura del design, la presenza internazionale, la sensibilità verso gli aspetti sociali del lavoro e l’azione diretta a vantaggio dello sviluppo del territorio, sotto il profilo culturale ed urbanistico. Questi caratteri sono impressi dal fondatore Camillo Olivetti e in particolare dal figlio Adriano, che a metà degli anni Trenta, trasforma l’azienda familiare in un moderno gruppo industriale internazionale capace di conquistare in diversi campi e in diversi momenti storici, posizioni di assoluta eccellenza a livello mondiale.

In un ambiente favorevole alla libera espressione dello spirito di iniziativa e delle capacità personali, aperto alla cultura umanistica come a quella tecnico-ingegneristica, emergono numerosi personaggi di grande valore: operai che diventano direttori generali, intellettuali e umanisti che ricoprono cariche importanti, tecnici, economisti e strateghi di primo piano, grafici e designer che legano indissolubilmente il nome Olivetti all’eleganza delle forme e alla funzionalità dei prodotti.

Conquistate posizioni di leadership mondiale nei prodotti meccanici per ufficio, già negli anni ’50 l’Olivetti investe nella tecnologia elettronica con importanti risultati.

La scomparsa di Adriano Olivetti (1960) e il peso degli investimenti rallentano la transizione verso l’elettronica; ma nel 1965 esce il primo calcolatore elettronico da tavolo la Programma 101, nel 1978 la prima macchina per scrivere elettronica a livello mondiale e nel 1982 il primo PC professionale europeo.

Negli anni ’80, Olivetti accelera lo sviluppo nell’informatica e nei sistemi. I nuovi sviluppi delle telecomunicazioni, negli anni ’90 spingono l’Olivetti a spostare il baricentro verso questo settore, dapprima creando Omnitel (1990) e Infostrada (1995) e poi acquisendo il controllo di Telecom Italia (1999), con la quale si fonde nel 2003.

La Olivetti – Archivio Nazionale Cinema d’Impresa

L’Associazione Archivio Storico Olivetti – attività e scopi

Costituita a Ivrea nel 1998 su iniziativa della Società Olivetti, in accordo con la Fondazione Adriano Olivetti e con la partecipazione di importanti soci pubblici e privati, l’Associazione si occupa del recupero, della conservazione, gestione, salvaguardia e valorizzazione del patrimonio storico documentale della Olivetti.

I fondi documentali sono costituiti da documenti, lettere, libri, giornali, riviste, manifesti, disegni, foto, filmati, audiovisivi, prodotti, modellini e plastici, che divengono oggetto di un sistematico lavoro di schedatura elettronica e per quanto possibile di digitalizzazione.

L’attività dell’Associazione non si esaurisce con l’impegno strettamente archivistico di recupero, catalogazione e conservazione dei documenti, ma si manifesta anche attraverso l’attività di assistenza e consulenza nei confronti di studiosi e ricercatori, di collaborazione con iniziative culturali di enti privati e pubblici, di realizzazione di mostre, filmati, conferenze, studi, ricerche e pubblicazioni finalizzate a promuovere e approfondire la conoscenza della storia e dei valori olivettiani.

Con questa medesima finalità l’Associazione gestisce e continuamente arricchisce il suo portale www.storiaolivetti.it che attraverso testi e foto gallery illustra diversi aspetti della storia olivettiana.

L’Associazione conserva anche una Biblioteca Specialistica che fa parte del coordinamento delle biblioteche speciali e specialistiche di Torino, e che conta al momento oltre 21.000 titoli ivrea.erasmo.it; l’Emeroteca raccoglie 186 periodici italiani ed esteri (tra cui gli house organ delle consociate della Società).

L’Associazione svolge attività educative, organizza tour didattici per le scuole e attività formative per le aziende del territorio, anche oltre l’ambito regionale; promuove e conduce visite (gratuite) per le scuole, di ogni ordine e grado, alla mostra permanente, Cento anni di Olivetti, il progetto industriale.

Dichiarato nel 1998 di “notevole interesse storico” da parte della Soprintendenza Archivistica per il Piemonte e la Valle d’Aosta, l’Archivio Storico Olivetti è nella Rete di Archivi d’Impresa, progetto della Direzione Generale per gli Archivi e collabora allo sviluppo di temi e percorsi del Portale del Sistema Archivistico Nazionale (SAN) e del Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche (SIUSA). È tra i soci fondatori dell’Associazione Nazionale degli Archivi e dei Musei d’Impresa, Museimpresa; nel 2005 diventa socio dell’AAA/Italia, l’Associazione nazionale degli Archivi di Architettura contemporanea.

L’Archivio collabora inoltre con molti enti del Territorio, tra cui il Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università degli Studi di Torino sede di Ivrea, e l’Accademia dell’Hardware e del Software libero “Adriano Olivetti”. È partner tecnico-scientifico del Tavolo di coordinamento della Candidatura Unesco di Ivrea città industriale del XX secolo.

Sito archeologico industriale: Archivio Storico Olivetti
Settore industriale: Industria tecnologica
Luogo: Ivrea, Torino, Piemonte, Italia
Proprietà e Gestione: Olivetti / Telecom Italia SpA – www.arcoliv.org
Testo a cura di: Associazione Archivio Storico Olivetti




L’Opificio Golinelli di Bologna nella ex SABIEM

Dal recupero del ex sito industriale delle Fonderie SABIEM, quella che fu una delle più importanti aziende bolognesi durante il secolo scorso, nasce l’Opificio Golinelli, il nuovo Centro per la conoscenza e la cultura della Fondazione Golinelli.

 La Storia delle Fonderie SABIEM

La SABIEM (Società Anonima Bolognese Industrie Elettromeccaniche) è stata una delle aziende di punta del manifatturiero bolognese durante il XX secolo. Fondata nel 1918 col nome di OEB – Officine Elettromeccaniche Bolognesi (solo 3 anni dopo, nel 1921, prese la denominazione SABIEM) all’interno del centro storico, nel 1920 iniziò l’attività che l’avrebbe resa celebre, rilevando la Pedretti, ditta specializzata nella produzione di ascensori e montacarichi. Oltre a questo settore, le fonderie SABIEM erano rinomate anche per le macchine per la pasta, il confezionamento di sigarette, servomotori ecc.

Nel 1929 l’azienda si trasferì nel quartiere allora periferico di Santa Viola, andando a rafforzare il polo metallurgico che in quell’area si era già stabilito da anni con le Fonderie Parenti e la Calzoni.
Nonostante la diversificazione industriale, la SABIEM si specializzò sempre di più nella produzione di ascensori e derivati: importanti accordi con grandi gruppi internazionali come Stigler, OTIS, Westinghouse e Siemens permisero all’azienda bolognese di entrare in possesso di brevetti e tecnologie all’avanguardia e di imporsi non solo come leader nazionale nell’ascensoristica, ma anche di diventare un player globale del settore. Già dagli anni ’30 furono aperte filiali in vari paesi dell’America Latina e la SABIEM riuscì comunque a svilupparsi nonostante la grave congiuntura economica.
Nel 1939 la società passò alla Bastogi (allora si chiamava “Strade Ferrate Meridionali”) che ne rimase proprietaria fino al 1985, quando iniziò la cessione alla multinazionale finlandese Kone.

Nel Dopoguerra l’azienda riuscì grazie a una continua innovazione tecnologica, risultato di ricerca e partnership strategiche, a rafforzare il proprio ruolo di leader nazionale dell’ascensoristica e a crescere sui mercati esteri, aprendo filiali in Messico, Venezuela (uno dei mercati più importanti), Sud Africa e ottenendo importanti commesse in Oriente. Ascensori, scale mobili e montacarichi arrivarono a coprire quasi il 90% del fatturato. Rimasero attive alcune altre produzioni come le presse per l’industria automobilistica che avevano come clienti nomi importanti del calibro di FIAT, Lancia e Peugeot.

Dagli anni ’70 crisi economiche e lotte sindacali misero seriamente in crisi la SABIEM che, nonostante la vitalità sui mercati mondiali, si avviò a un lento ma inevitabile ridimensionamento produttivo e di personale. L’entrata nella galassia Kone non attenuò il declino delle storiche fonderie bolognesi che furono progressivamente smantellate e chiuse definitivamente nel 2008.

L’Opificio Golinelli: 9.000 mq per la conoscenza e la cultura a Bologna

Inaugura il 3 ottobre 2015 a Bologna Opificio Golinelli, il nuovo Centro per la conoscenza e la cultura della Fondazione Golinelli.

La Fondazione Golinelli nasce a Bologna nel 1988 per volontà dell’imprenditore e filantropo Marino Golinelli con l’obiettivo di promuovere l’educazione e la formazione, di diffondere la cultura e la scienza, di favorire la crescita intellettuale ed etica dei giovani e della società.

Intervista a Marino Golinelli

Nuova casa dal nome antico, Opificio Golinelli sorge in via Paolo Nanni Costa, in adiacenza all’area industriale di circa 3 ettari occupata fino al 2008 dalla Società Fonderie SABIEM. La cittadella del sapere, che ha richiesto un investimento complessivo di 12 milioni di euro, è di 9.000 mq: diventa il quartiere generale della Fondazione che qui svolgerà ampia parte delle sue attività formative, didattiche e culturali.

Se dal 2000 a oggi i progetti della Fondazione hanno coinvolto quasi un milione di persone, i nuovi spazi saranno in grado di accogliere più di 150.000 visite l’anno. I numeri attesi e il modello culturale ne fanno un centro di rilevanza nazionale e di riferimento anche internazionale.

Opificio Golinelli, il cui progetto architettonico è stato affidato a diverserighestudio di Bologna, è anche un intervento di rigenerazione urbana del patrimonio industriale abbandonato. La scelta del luogo non è casuale: l’opera di riqualificazione di uno stabilimento produttivo dismesso è stata voluta dalla Fondazione Golinelli e si ricollega all’idea del fare e dello sperimentare, come vettore concreto di esperienza e apprendimento.

Opificio Golinelli offre un’idea di comunità del futuro: presenta una concezione urbanistica policentrica della città, che diventa una rete ricca di connessioni vive tra il centro geografico e gli aggregati periferici.
“Esterno locale, interno globale”, questa la visione che ha guidato la progettazione dell’edificio, concepito come metafora di una città smart, vero e proprio acceleratore della società verso il futuro.
Gli uffici della Fondazione sono il quartier generale; Scienze in pratica offre agli adolescenti l’opportunità di fare concrete sperimentazioni in un laboratorio modernamente attrezzato accendendo la passione per scienza e tecnologia; Scuola delle idee è uno spazio ludico e interattivo per valorizzare la creatività di bambini dai 18 mesi; Educare a educare è il programma per formare gli insegnanti a una didattica in un costante dialogo fra le discipline scientifiche e umanistiche; Giardino delle imprese propone attività educative e formative per avvicinare i ragazzi dei licei, degli istituti tecnici e universitari all’imprenditorialità sperimentando percorsi concreti negli acceleratori e mettendosi in gioco per la determinazione delle proprie aspirazioni.

Opificio Golinelli è perno di riferimento anche per Scienza in Piazza, la manifestazione culturale che porta laboratori, incontri, convegni e mostre nelle aree urbane trasformandole in science center temporanei; e Arte, Scienza e Conoscenza, che con le mostre di arte+scienza, gli incontri e i convegni stimola il pensiero complesso e il dibattito negli adulti e nei ragazzi.

Se da un lato la Fondazione è inserita in una rete di connessioni a livello nazionale e internazionale che la mette in contatto con oltre 100 partner tra enti culturali e di ricerca, amministrazioni, enti non profit, Opificio Golinelli nasce già in già in collegamento con i principali centri analoghi italiani e con i più autorevoli network europei del settore; se il paradigma ispiratore solitamente è votato alla dimensione espositiva, l’Opificio, specularmente, essendo il luogo dove consacrare nuovamente la combinazione del “sapere al saper fare”, sarà tra i più grandi laboratori sperimentali a fine didattico nel campo delle scienze e della tecnologia in Italia.

Sito archeologico industriale: ex SABIEM – oggi Opificio Golinelli
Settore industriale: Industria metalmeccanica
Luogo: Bologna, Emilia Romagna, Italia
Proprietà e Gestione: Fondazione Golinelli – www.fondazionegolinelli.it
Testo e immagini a cura di: Per la parte storica si ringrazia il dott. Jacopo Ibello – Per la presentazione dell’Opificio Golinelli si ringrazia l’Ufficio Comunicazione della Fondazione Golinelli




La centrale idroelettrica Taccani di Trezzo sull’Adda

La centrale idroelettrica Taccani di Trezzo sull’Adda, nella provincia di Milano, perfettamente conservata ed ancora attiva di proprietà Enel, è un meraviglioso esempio di archeologia industriale.

La centrale Taccani nella cornice del Parco Adda Nord

Verso la fine dell’Ottocento, lungo le sponde del fiume Adda, sorsero alcune delle più belle centrali idroelettriche realizzate in Italia. Esse, fruttando la forza delle acque fluviali, producevano l’energia necessaria al funzionamento di diverse manifatture, nonché all’illuminazione della città di Milano. Tra queste centrali, la più possente e splendida nelle sue architetture è proprio la centrale Taccani.

La centrale Taccani e la sua storia

La centrale Taccani è situata sull’asta fluviale del fiume Adda, all’interno del Parco Adda Nord, alla base del promontorio roccioso che determina l’ansa del fiume detta di Trezzo e sulla cui sommità rimangono le rovine del castello costruito nel 1370 da Barnabò Visconti sui resti di una precedente struttura longobarda.

L’impianto, costruito tra il 1903 e il 1906, fu realizzato dall’Architetto Gaetano Moretti che ricevette incarico dall’industriale Cristoforo Benigno Crespi (1833-1920), titolare di una celebre industria cotoniera e fondatore del villaggio di Crespi d’Adda (oggi Patrimonio dell’UNESCO), di costruire un impianto idroelettrico che fornisse energia al cotonificio ma nel contempo che fosse ben inserito nel contesto ambientale.

Fu così che il Moretti, utilizzando la caratteristica pietra locale chiamata “ceppo dell’Adda” e accogliendo i moduli verticalizzanti suggeriti dalla sovrastante torre viscontea, riuscì a produrre un’opera di grande armonia compositiva, perfettamente integrata nell’ambiente fluviale che la circonda e nello sfondo costituito dai ruderi del castello medievale. Nell’ottica della salvaguardia ambientale appare di notevole interesse anche tutela della fauna ittica con la realizzazione in sponda sinistra della scala di risalita del pesce. I lavori tecnici dell’impianto furono affidati agli ingegneri Adolfo Covi, Alessandro Taccani e Oreste Simonatti.

La centrale idroelettrica di Trezzo costituiva, per l’epoca in cui fu costruita, un vero e proprio “polo energetico” in quanto comprendeva oltre alla sezione idroelettrica con dieci generatori che fornivano una potenza di 10.000 kW, anche una sezione termoelettrica con quattro generatori a vapore della potenza complessiva di 4.000 kW destinati ad integrare la produzione idroelettrica durante le magre invernali del fiume Adda.

La centrale Taccani oggi: energia pulita nel tempo

A metà degli anni 90 è stato operato un consistente intervento di miglioramento e ammodernamento tecnologico e ambientale che ha restituito alla centrale piena efficienza e sicurezza, nonché il mantenimento di elevati standard di affidabilità. Nella centrale, oggi, sono in funzione 6 gruppi turbina/alternatore, costituiti da 4 turbine ad elica e 2 turbine Kaplan in grado di utilizzare portate fino a 180 m3/sec. La potenza efficiente è di circa 10.500 kW e l’energia producibile è in media di circa 65 milioni di kWh, sufficiente al fabbisogno annuo di oltre 24.000 famiglie.

La centrale Taccani luogo di cultura

Non solo la centrale Taccani oggi rappresenta un luogo unico da visitare per gli amanti dell’archeologia industriale, per gli studiosi di ingegneria idraulica e per tutti coloro che amano andare alla scoperta di luoghi particolari legati alla storia economica e produttiva del territorio, ma è anche in grado di trasformarsi in location eccezionale per eventi prestigiosi.

Sito archeologico industriale: la Centrale idroelettrica Taccani
Settore industriale: Settore energetico
Luogo: Comune di Trezzo sull’Adda (MI), Lombardia, Italia
Proprietà e Gestione: La Centrale Taccani è di proprietà Enel
Testo a cura di: si ringrazia l’ufficio comunicazione Enel
Immagini a cura di: Si ringrazia l’ufficio comunicazione Enel




Valdarno: le miniere di lignite ed il MINE Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia

Le miniere di lignite ed il MINE Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia: storia del nostro patrimonio industriale in Valdarno in Toscana.

Chi si trovasse a percorrere la Strada delle Miniere con sguardo distratto non potrebbe cogliere l’essenza e l’entità delle profonde trasformazioni sociali e ambientali che si sono succedute per oltre un secolo nel territorio verdeggiante che si dipana davanti ai suoi occhi.

“ENEL PRODUZIONE S.p.A. – Unità di Business Santa Barbara – Miniera Santa Barbara”.
Questo è ciò che recita, a lettere bianche su sfondo blu, il cartello indicatore situato sotto le enormi torri di raffreddamento della Centrale Termoelettrica di Santa Barbara: una semplice riga di testo per identificare il luogo dove, dal 1875, si è sviluppata una delle più straordinarie storie industriali del nostro Paese.

Una storia che nasce per volontà di un lungimirante gruppo di industriali toscani che intuisce la possibilità di sfruttare a fini produttivi quel minerale che fa capolino qua e là nelle campagne situate a ovest dell’Arno, infondendo nell’aria, se incendiato, un odore acre e non gradevole.

È di quegli anni l’apertura delle prime miniere in galleria: uomini che scavano nelle viscere della terra, riempiono vagoncini e chiatte da portare in superficie trainandoli con cavalli e argani elettrici, dove altri uomini, donne e ragazzi selezionano il materiale dividendo lo sterile dalla lignite, i pezzi grossi da quelli tritati, la lignite “bazzotta” da quella “secca”.

Nel XX secolo l’attività si sviluppa: a cavallo delle due guerre nelle miniere si contano circa 5.000 lavoratori; una risorsa straordinaria in grado di trainare vigorosamente, e per alcuni decenni, le sorti dell’economia del Valdarno Aretino.

Con la fine del secondo conflitto mondiale e con l’avanzare delle impietose regole di mercato viene messa a nudo la scarsa competitività della lignite; dopo un periodo di lotte fra la società mineraria e i lavoratori riuniti in cooperativa per la prosecuzione dell’attività di estrazione, si giunge a metà degli anni ’50 alla definizione di un nuovo progetto di coltivazione mineraria che prevede lo scavo a cielo aperto della lignite e il suo conferimento ad una nuova centrale termoelettrica da realizzarsi a bocca di miniera.

Tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ’60, con l’acquisizione da parte di Enel della concessione mineraria di Santa Barbara, potenti macchine a catena di tazze cominciano l’asportazione del materiale sterile di copertura del banco di lignite, che ha uno spessore medio di 80 metri, e lo depositano nei cavi di estrazione precedentemente esauriti o in valli limitrofe, fino a ridisegnare completamente l’orografia di circa 3.000 ettari di territorio.

Alla fine dell’attività estrattiva, avvenuta nel 1994, i movimenti di terra sono nell’ordine di 390 milioni di metri cubi di terreno sterile e di circa 40.000 tonnellate di lignite, con un cambiamento sostanziale del paesaggio caratterizzato da una miniera a cielo aperto che in questi ultimi 20 anni è stata oggetto di visite e iniziative per le sue caratteristiche da “paesaggio lunare”.

Oggi, dei circa 3.000 ettari di territorio inizialmente interessati dal Comprensorio Minerario, circa 1.300 ettari sono stati restituiti alla collettività; sui restanti 1.700 ettari sono in corso le operazioni di riassetto ambientale, che porterà, nel giro di qualche anno, alla chiusura completa dell’attività mineraria: si tratta di uno dei più grandi progetto di riqualificazione ambientale e paesaggistico a livello nazionale, che porterà alla creazione di due grandi laghi, all’inalveazione di tredici torrenti, alla messa in sicurezza di intere colline, alla rinaturalizzazione di centinaia di ettari di territorio nel rispetto della biodiversità e alla realizzazione di strutture viarie, piste ciclabili, aree industriali.
Una rinascita completa attraverso una minuziosa opera di ricucitura con il territorio circostante e con la sua società, nel rispetto dell’ambiente e della storia delle migliaia di persone che alla Miniera di Santa Barbara hanno dedicato la loro vita, garantendo al Valdarno sviluppo economico e sociale.

MINE: il Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia

Il museo MINE mostra in modo interattivo le vicende di una popolazione legata per oltre cento trent’anni alle miniere di lignite: sopravvivenza economica e dannazione del nostro patrimonio industriale.

Il nome MINE deriva da un antico vocabolo italiano usato, come sinonimo di miniere, da Lodovico Ariosto nell’Orlando Furioso all’inizio del Cinquecento. Abbiamo, nello stesso periodo, la prima documentazione della presenza della lignite nel Valdarno, anche se per il suo sfruttamento industriale bisogna aspettare gli anni Settanta dell’Ottocento.

Il complesso museale documenta e valorizza la storia del territorio di Cavriglia e in particolare le vicende minerarie che hanno modificato profondamente una parte rilevante di questo territorio ed è ospitato in alcuni edifici nella parte alta di Castelnuovo dei Sabbioni. Il resto del vecchio borgo fu abbandonato e in parte distrutto dall’attività mineraria dell’ultimo periodo caratterizzata dall’escavazione a cielo aperto. I grandi escavatori seguivano il filone della lignite e buttavano giù tutto quello che trovavano: case coloniche, cimiteri, antiche chiese, castelli e borghi. Tra questi Castelnuovo dei Sabbioni che venne lambito dallo scavo al punto da intaccarne la stabilità e da costringere la popolazione ad andare a vivere altrove.
Rimane, all’inizio della strada, un sacrario che ricorda le 74 vittime civili dell’eccidio perpetrato dai nazisti il 4 luglio 1944. Alcune case in rovina contornano la strada che conduce alla parte superiore dell’abitato, che comprende alcuni edifici recentemente recuperati e rifunzionalizzati in spazi museali: la ex chiesa di San Donato, adibita a spazio polifunzionale, il centro espositivo ed una palazzina degli anni Venti del Novecento utilizzata come centro di documentazione e spazio per attività didattiche. La logica comune che pervade questi spazi è fortemente tesa al coinvolgimento dello spettatore per una conoscenza approfondita del patrimonio culturale conservato.

Il Percorso museale del MINE si sviluppa attraverso sette sale dedicate alla storia e alle vicende minerarie secondo un itinerario che inizia dalle prime notizie documentate sul giacimento di lignite, per poi passare allo sviluppo dell’attività mineraria nel secondo Ottocento e alle prime lotte sindacali all’inizio del Novecento. Il percorso si concentra poi sulle tecniche di scavo nella miniera in sotterraneo e sulla vita del minatore. La ricostruzione di un tratto di galleria permette ai visitatori di immedesimarsi nella penombra, nei diversi rumori e negli gli odori di una miniera di lignite. La galleria termina uno spazio che mostra le vicende del territorio dagli anni Trenta agli anni sessanta del Novecento. Trent’anni densi di storia con lutti, quali quelli provocati delle stragi nazista sulla popolazione maschile nel luglio del 1944. Poi le lunghe lotte e le forme di autogestione del dopoguerra, accompagnate da forme di partecipazione e di solidarietà da tutta Italia con invio di aiuti alimentari alle famiglie degli operai in sciopero. Infine i cambiamenti delle tecniche di coltivazione; da quelle in galleria a quelle a cielo aperto. Si passa da una strumentazione molto semplice mostrata nella galleria ad un industrializzazione centrata su grandi macchine complesse elementi portanti di automatismi che permettono un enorme aumento di produzione ed una contemporanea riduzione di manodopera.
L’itinerario si chiude con la presentazione della trasformazione del territorio dovute all’attività mineraria e al suo riassetto con un tecnologico tappeto virtuale che permette in base ai movimenti del visitatore la proiezione di differenti sequenze di immagini. Punto caratteristico dell’allestimento è l’interazione con le moderne tecnologie che permettono al visitatore di essere soggetto attivo nella conoscenza dei temi presentati. È presente una figura parlante, che rappresenta Priamo Bigiandi, un personaggio simbolico della storia territoriale che, azionato dal visitatore introduce alla visita, vi sono poi dei touch screen, un’installazione artistica per ricordare la strage dei civili il 4 luglio 1944, un tappeto virtuale finale ed inoltre possibilità di esperienze tattili ed olfattive che rendono particolarmente densa la visita al museo.

La visita continua all’esterno in una corte che domina un ampio panorama caratterizzato da un sottostante lago e dalle torri refrigeranti della centrale elettrica di Santa Barbara dove veniva utilizzata la lignite per essere trasformata in energia elettrica. La centrale funziona ancora e dalle sue eleganti torri, una è ancora in attività, è possibile vedere ancora levarsi un pennacchio di fumo bianco che ricorda come il passato energetico non si è ancora concluso, anzi Cavriglia sta vivendo una seconda età dell’energia. Infatti oltre alla centrale elettrica è attivo da alcuni anni, nel territorio, un importante complesso Fotovoltaico ed il museo sta progettando un ampliamento del suo allestimento per mostrare accanto alle forme di sfruttamento dell’energia (i combustibili fossili) di ieri, quelle moderne: il sole. Un aspetto importante dell’attività del museo è la didattica per facilitare il passaggio di saperi da una generazione all’altra in modo da creare , nel tempo una continuità nella costruzione culturale della popolazione e per mostrare ai turisti un esempio di storia sociale del territorio.

Info:
Museo delle Miniere e del Territorio e Centro Documentazione del Museo
via XI Febbraio – Vecchio Borgo di Castelnuovo dei Sabbioni – Cavriglia (Ar)
Tel. 055 3985046 email: info@minecavriglia.it

Sito archeologico industriale: la Miniera di Santa Barbara e MINE Museo delle Miniere e del Territorio
Settore industriale: Settore minerario e della Energia
Luogo: Comune di Cavriglia (AR), Toscana, Italia
Proprietà e Gestione: La miniera di Santa Barbara è di proprietà Enel
Testo a cura di:per la parte relativa al sito minerario si ringrazia l’ufficio comunicazione Enel; per la parte relativa al Mine si ringrazia il Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia
Immagini a cura di: Si ringrazia l’ufficio comunicazione Enel ed il MINE Museo delle Miniere e del Territorio di Cavriglia




La centrale Antonio Pitter di Malnisio oggi Museo & Science Centre

La centrale idroelettrica “Antonio Pitter” di Malnisio in provincia di Pordenone è uno splendido esempio di archeologia industriale riconvertito in Science Centre dove è possibile ripercorrerne la storia e comprenderne il funzionamento.

La centrale idroelettrica di Malnisio e la sua storia

Situata nel contesto naturale della pedemontana pordenonese, la Centrale idroelettrica “Antonio Pitter” di Malnisio si inserisce in un sistema di impianti per lo sfruttamento idroelettrico del torrente Cellina, realizzato agli inizi del ‘900, grazie all’intuizione e al progetto di Aristide Zenari, giovane ingegnere del Regio Genio Civile.

Alla fine dell’800, Zenari si rese conto che la stretta forra del Cellina ben si prestava ad uno sfruttamento idroelettrico. Il progetto prevedeva la costruzione di una diga in località Rugo Valfredda, lo scavo in roccia di un lungo canale adduttore con 57 ponti-canale e arcate di sostegno e con 5 gallerie e la realizzazione di tre centrali a Malnisio (1905), a Giais (1908) e in località Partidor (1919), inizialmente per alimentare la sola Venezia, quindi consentendo il decollo di numerose attività industriali nel Veneto e in Friuli.

Il progetto prese avvio nel marzo del 1900, sotto la direzione degli ingegneri Aristide Zenari per la parte idraulica e civile e Antonio Pitter per quella elettrotecnica. Più di duemila tra minatori, scalpellini, muratori, carpentieri, scarriolanti e donne portatrici lavorano alacremente per cinque anni nella serie di cantieri che si snodano dalla diga, lungo il canale adduttore, nelle centrali di Malnisio e Giais e nei rispettivi canali di scarico.

In funzione dal 1905 – con il suo sistema di quattro turbine tipo Francis Riva-Monnert accoppiate ai rispettivi alternatori Tecnomasio Italiano Brown-Boveri da 2.600HP – la Centrale chiude definitivamente la produzione nel 1988, uscendo indenne dai due conflitti mondiali e dal sisma del ’76 e mantenendo tutti i macchinari perfettamente intatti e conservati. Per la trasmissione alle stazioni rilevatrici, la corrente, qui generata alla tensione di 4.000 Volt, veniva elevata con due trasformatori monofase a 30.000 Volt (quello che allora era considerato il massimo potenziale), successivamente sostituiti da altri trifasi, che elevarono la tensione a 60.000 Volt.

Il Museo della Centrale di Malnisio e Science Centre 

Dopo la chiusura del 1988 delle tre centrali (Malnisio, Giais e Partidor), l’Enel, allora proprietaria della struttura, conscia del grandissimo valore culturale e ambientale della Centrale, accarezza l’idea di farne un museo dell’idroelettrico, procedendo anche con il recupero, nelle sue diverse centrali distribuite in Italia, e con il trasporto presso la Centrale di Malnisio stessa di macchinari dismessi di interesse storico-tecnico.

Il progetto di recupero della Centrale viene poi ripreso dal Comune di Montereale Valcellina: questi, acquisitane la proprietà, ha potuto iniziare l’intervento di recupero grazie a finanziamenti della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e della Comunità Europea, ma anche grazie all’associazione di ex dipendenti della Centrale, che hanno fornito la loro preziosa collaborazione.

Nel 2006, in occasione del centenario della Centrale, è stato restaurato il fabbricato principale, adibito a sala macchine, e l’ingresso della struttura ad est, inaugurando così il museo della “Centrale di Malnisio”.

Fin dal principio, il Museo, in tutte le sue attività di organizzazione e assistenza alle visite guidate per il pubblico generico e scolastico, è stato affidato all’Immaginario Scientifico – già gestore del museo della scienza interattivo di Trieste – che nel luglio 2007 insedia nell’ex Centrale una nuova sede del Science Centre Immaginario Scientifico, con la sezione di exhibit interattivi Fenomena e l’attivazione di un programma di attività didattiche laboratoriali.

Da settembre 2017 la ex centrale idroelettrica di Malnisio è tornata sotto la gestione del Comune di Montereale Valcellina,  accogliendo pubblico scolastico e generico, per lo più da tutta la regione Friuli Venezia Giulia e dal Veneto.

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Il Museo della Centrale di Malnisio è Anchor Point ERIH Italia

 

 

Sito archeologico industriale: La Centrale idroelettrica “Antonio Pitter” di Malnisio
Settore industriale: Settore Energia
Luogo: Malnisio, Pordenone, Italia
Proprietà e Gestione: Proprietà e gestione Comune di Montereale Valcellina




La fabbrica Fernet Branca e la Collezione Branca

La Fernet Branca, un’azienda tutta italiana con 170 anni di storia,  racconta di una capacità imprenditoriale fortemente legata alle proprie tradizioni, ma sempre protesa al futuro.

Novare serbando” è il motto dell’azienda che affonda le sue origini nel lontano 1845, quando Bernardino Branca, speziale di professione, con l’aiuto di un medico (tradizione vuole che fosse svedese e di cognome facesse Fernet) mette appunto un preparato per la cura del colera e della malaria.
Ben 27 elementi tra erbe, spezie e radici compongono la bevanda, delle quali però restano segrete le modalità, i tempi e le temperature di estrazione delle essenze; ancora oggi 5 delle 27 spezie vengono pesate e miscelate direttamente da un membro della famiglia Branca, che svolge l’operazione da solo, a porte chiuse. Gli ottimi risultati ottenuti sono la motivazione grazie alla quale cinque anni dopo, nel 1850, viene fondato il primo stabilimento Fernet Branca in Viale di Porta Nuova.

L’attività va a gonfie vele già dagli esordi, questo però costringe a cambiare stabilimento per uno più grande. Nel 1910 la Fernet Branca si trasferisce nella sede di Via Resegone 2 dove tutt’oggi si trova l’intera attività produttiva (eccetto, per motivi di sicurezza, la distillazione dell’alcool), un bene classificabile come archeologia industriale che però continua a svolgere la sua attività di sempre.
La nuova sede della Fernet Branca si presenta così come una piccola città del lavoro: orti, sartoria, falegnameria, infermeria erano alcuni dei servizi a disposizione dei 900 operai presenti in fabbrica.

Oggi con Niccolò Branca siamo alla quinta generazione e,  nonostante il volume produttivo sia rimasto alto, bastano 40 operai e altrettanti addetti alle mansioni contabili e di marketing per portare avanti l’azienda.
La fabbrica di via Resegone 2 è l’unico stabilimento europeo della Branca, da qui escono ogni anno 20 milioni di bottiglie tra i vari prodotti aziendali, esportati in Europa, Africa e America del nord.

Dagli anni ’80 dello scorso secolo la Fernet Branca inizia una politica di acquisizioni, entrano così a far parte del gruppo la Carpano di Torino, produttrice del Vermut Carpano e del Punt e Mes, poi la Grappa Candolini, e quindi nel 2000 arriva l’acquisizione del celebre Caffè Borghetti. Nello stesso anno la Fernet Branca apre il proprio stabilimento in Argentina, coprendo da vicino il mercato sudamericano

La Collezione Branca

La Collezione è un’iniziativa culturale che vuole far conoscere la storia di Branca in Italia e nel mondo, sia per quanto riguarda la tradizione e la cultura degli speziali, che per l’evoluzione imprenditoriale.

Il museo nasce per iniziativa del Presidente Niccolò Branca che ha voluto raccogliere e conservare oggetti, documentazione da collezione, oltre che dotare l’azienda di un luogo per attività culturali ed è uno dei primissimi musei d’impresa in Italia.

La Collezione è allestita nel complesso industriale di Milano e occupa oltre 1000mq. Essa è il frutto di più di 10 anni di lavoro in cui sono stati coinvolti tutti i soggetti attivi dell’Azienda, dalla selezione dei materiali, al restauro degli oggetti, fino all’allestimento finale.

L’aroma del Fernet-Branca pervade il museo e per evidenziare i diversi ambiti produttivi sono stati allestiti una bellissima area “erboristeria”, il laboratorio chimico per la qualità e l’analisi delle erbe, la falegnameria, un ufficio.

Alle pareti si possono ammirare, tra l’altro, alcuni calendari annuali realizzati dal 1886 al 1913 e alcuni dei tanti manifesti promozionali a firma Metlicovitz, Cappiello, Jean d’Ylen, Mauzan, Codognato, che testimoniano l’attenzione di Branca all’immagine d’impresa.

Su alcuni tavoli sono esposte alcune bottiglie di prodotti Branca “vecchie” di oltre 60 anni (tra cui una delle prime prodotte). Nell’area comunicazione si ammirano i bozzetti di alcune campagne pubblicitarie degli anni ’60 – 70’ e si rivedono i famosi Caroselli della televisione.

Ma la vera sorpresa arriva quasi alla fine del percorso museale, è la Botte Madre, la botte più grande d’Europa: 84.000 litri, 6 metri di diametro per 6. Fu costruita nel 1892 all’interno della prima sede poi, nel 1910 smontata, le sue doghe caricate su 40 carri, poi ricostruita in due mesi nell’attuale posizione. In questo gigante di legno invecchia il brandy Stravecchio e dal 1910 non è mai più stata svuotata per intero: ogni ciclo, infatti, viene lasciato un terzo del contenuto e poi rabboccata con il brandy nuovo. In questo modo si ha una specie di “riserva perpetua”, che dà continuità e una certa dose di fascino al prodotto.

Infine, 300 botti per lo Stravecchio e 500 botti per il Fernet, di 25.000 litri di capacità media per ogni botte, fiancheggiano il tunnel sotterrano che conduce all’uscita.

La Collezione Branca raccoglie dunque le testimonianze che portano a conoscere valori e tradizioni della storia Branca, una storia in cui l’azienda è fiera e alla quale ancora oggi si ispira per il futuro.

La Collezione Branca è parte di Museimpresa, l’associazione italiana dei musei e degli archivi d’impresa, promossa da Assolombarda e Confindustria.

Informazioni:

La Collezione Branca è aperta solo per visite guidate su appuntamento/invito
(Lunedì – mercoledì – venerdì – due visite al giorno, alle h. 10.00 e alle h. 15.00)
Via Resegone, 2 -Milano – Tel: 02 8513970 collezione@branca.it

Sito archeologico industriale: Fabbrica Fernet Branca e la Collezione Branca
Settore industriale: Settore Beverage
Luogo: Milano, Lombardia, Italia
Proprietà e Gestione: Fernet Branca www.branca.it
Testo a cura di: Collezione Branca




I Frigoriferi Milanesi: storia dell’evoluzione di un luogo

I Frigoriferi Milanesi, uno spazio polifunzionale da due cuori pulsanti il Palazzo dei Frigoriferi ed il Palazzo del Ghiaccio, è uno dei complessi architettonici di archeologia industriale più interessanti di Milano.

Il Palazzo dei Frigoriferi ed il Palazzo del Ghiaccio: la storia

Il Palazzo dei Frigoriferi di via Piranesi è stato costruito nel 1899, svolgendo la sua prima funzione di magazzino del ghiaccio sino agli anni Settanta. I Magazzini Refrigeranti e Ghiaccio Gondran Mangili si presentavano come un edificio squadrato a forma di parallelepipedo, dalle mura spesse ed alto quattro piani illuminati attraverso aperture a forma di feritoie. Uno dei magazzini del ghiaccio più grandi di Europa, a testimonianza dell’audacia economica e lo spirito imprenditoriale lombardo dell’epoca.

Nel 1923, sul fianco est della struttura utilizzata come deposito, viene inaugurato il Palazzo del Ghiaccio che diventerà la pista di pattinaggio di Milano nonché, con i suoi 1800 metri quadrati, la più grande pista coperta d’Europa. Il Palazzo del Ghiaccio risponde ad una semplice logica di sfruttamento della funzione del Palazzo dei Frigoriferi, nonché dell’energia generata in surplus. I due edifici sono così collegati da un rapporto tecnico, sebbene il primo destinato a fini utilitaristici mentre il secondo al divertimento. Una configurazione di tal tipo non si era ancora mai vista in tutta Europa.

Progettato dagli ingegneri Sandro Carnelli, Carlo Banfi e Ettore Redaelli, il Palazzo del Ghiaccio riprende l’aspetto del circo classico, con pista centrale delimitata da tribune circostanti. In stile Liberty come era in uso in quel periodo, il Palazzo del Ghiaccio, a forma di ogiva e dalle fondamenta in cemento armato, presenta un’imponente copertura in ferro, legno e vetro che costituisce un felice incontro di virtuosismo architettonico e rigore ingegneristico.

Il binomio Palazzo dei Frigoriferi – Palazzo del Ghiaccio rappresenta una rivoluzione per allora, considerando che l’idea di spazio polifunzionale era assolutamente bandita a favore dell’edificazione di edifici dedicati ad un’unica funzione: abitazione, artigianale, industriale, ludica, etc.

La nuova vita dei Frigoriferi Milanesi

Giuseppe Cabassi, uomo d’affari ed imprenditore, negli anni ’70 acquista il Palazzo dei Frigoriferi ed il Palazzo del Ghiaccio, che formano il comparto dei Frigoriferi Milanesi.

Il Palazzo dei Frigoriferi allora era adibito alla produzione di ghiaccio, oltre che allo stoccaggio di alcuni alimenti quali carni, legumi e uova e da sempre aveva assorto anche il ruolo di deposito per pellicce, tappeti ed oggetti di valore. Da qui l’idea di poter utilizzare questo spazio come luogo dove conservare cose preziose che non necessitassero di manutenzione e che Giuseppe Cabassi concretizza avviando una nuova attività all’interno della struttura: casseforti e messa in sicurezza dei beni. Successivamente, i figli di Giuseppe Cabassi ampliano l’attività di custodia dei caveau, con servizi integrati per la gestione e valorizzazione di opere d’arte quali art consulting, logistica per l’arte e laboratori di conservazione e restauro specializzati nella manutenzione di dipinti,  affreschi, arredi lignei, arazzi, tappeti e strumenti scientifici. Nasce così Open Care – Servizi per l’arte, la società del Gruppo Bastogi  che dal 2003 opera all’interno dei Frigoriferi Milanesi prendendosi “cura” – da qui l’origine del nome – degli oggetti che trovano allocazione nei suoi spazi di sicurezza e nei suoi laboratori di conservazione e restauro.

Abbandonata gradualmente la filiera del freddo e dismessa nel 2002 la sua funzione di pista di pattinaggio, il luogo, dopo l’importante riqualificazione, è diventato uno spazio polifunzionale che accoglie a eventi di vario tipo, dalle sfilate di moda, alle convention aziendali.

La radicale ristrutturazione degli edifici del complesso dei Frigoriferi Milanesi, che si concluderà nel 2009, ha mirato – insieme alla ricerca di una coesione armoniosa delle diverse attività all’interno delle strutture – ad una valorizzazione della dimensione pubblica del sito trasformandolo in luogo della socializzazione e contemporaneamente ricostruisce un rapporto con lo spazio, aprendolo alla luce ed agli sguardi. Il programma di ristrutturazione dei Frigoriferi Milanesi si inserisce anche in una visone più ampia di riqualificazione dell’intera area di via Piranesi, la stessa pannellatura rossa che ricopre la facciata su strada per ben 60 metri di lunghezza intende essere la metafora di un’azione decisa rigenerativa.

A seguito della recente riqualificazione architettonica che ha preservato il fascino dello stile industriale, sono stati ricavati spazi utilizzati per l’organizzazione di presentazioni, incontri culturali, mostre, esposizioni, spettacoli teatrali e videoproiezioni.

L’organizzazione di eventi è curata da Progetto Frigoriferi Milanesi che in questi anni ha creato alcuni format culturali che hanno riscontrato un grande interesse, quali le rassegne Frigodiffusione, Writers. Gli scrittori (si) raccontano, e Writers… Continua, oltre a Writing: Design on your desk, il primo evento in Italia dedicato interamente allo stationery design.

Sito archeologico industriale: Frigoriferi Milanesi
Settore industriale: Servizi
Luogo: Milano, Lombardia, Italia
Proprietà e Gestione: Gruppo Bastogi www.frigoriferimilanesi.it
Testo a cura di: Simona Politini e Ufficio comunicazione Frigoriferi Milanesi
Immagini a cura di: Ufficio comunicazione Frigoriferi Milanesi