Il Museo della Carta di Amalfi in Campania

Il Museo della Carta di Amalfi, piccolo gioiello di archeologia industriale, racconta di una tradizione antica in uno dei luoghi più suggestivi della nostra Italia.

Amalfi e la produzione della carta

Non si hanno documenti ufficiali che consentono di determinare gli anni esatti dei primi impianti, ma si può supporre che siano sorti intorno alla prima metà del XII sec. prendendo come riferimento epocale la data (1231) in cui Federico II con le norme “decretali” pubblicate a Melfi vietò ai curiali di Napoli, Sorrento e Amalfi l’uso della carta “bambagina” negli atti pubblicati ed impose la trascrizione degli stessi su pergamena.

Gli amalfitani avevano appreso dagli Arabi le tecniche per la produzione di carta che allora veniva chiamata carta bambagina, dal nome della città araba El Mambig e, anche, secondo altre tesi, dal cotone omonimo.
Poi la carta amalfitana fu usata anche per scritture private, per atti giudiziari e valori bollati in tutte le città dell’Italia Meridionale, presso le corti degli Angioini, degli Aragonesi, del Vicereame Spagnolo e della corte Borbonica. Furono molti gli stranieri che, attirati dalla qualità del prodotto, arrivavano a Napoli per stampare le loro opere sulla carta d’Amalfi.
Quante siano le cartiere sorte nella Valle dei Mulini non é possibile stabilirlo.

Il Museo della Carta di Amalfi

Per iniziativa di uno dei suoi figli migliori, il comm. Nicola Milano, illustre discendente di un’antica stirpe di cartari, Amalfi ha il suo “ Museo della Carta ”. Questo museo ha sede in un’antica cartiera risalente al XIV secolo, o, forse, alla metà del XIII.
La donazione per la Fondazione avvenuta nel 1969 e riconosciuta con decreto del Presidente della Repubblica del 22 novembre 1971 n. 1294 è frutto dell’acquisita consapevolezza del Magister in arte cartarum Nicola Milano dell’incombente pericolo non solo di un ulteriore degrado di questo insediamento, e anche di una definitiva perdita della sua identità, ma soprattutto perché fosse conservata per i posteri la “Storia” della carta a mano amalfitana.

Nella cartiera – museo sono ancora oggi fruibili gli attrezzi secolari usati nella produzione della carta a mano. Ben evidenti gli antichi magli in legno che, azionati da una ruota idraulica, battevano e trituravano gli stracci di lino, cotone e canapa precedentemente raccolti nelle possenti “Pile in Pietra”. L’impianto così ricavato si prelevava dalle pile con opportuni attingiti in legno e veniva immesso nel Tino, diluendolo con acqua. Il “Tino” consisteva in una vasca, rivestita interamente di maioliche, di un’altezza tale da consentire al lavorante in piedi la più comoda delle posizioni. Il lavorante immergeva nel tino un telaio il cui fondo era costituito da una rete metallica a maglie strette e raccoglieva una certa quantità di pasta, distribuendola nella forma. Scolata l’acqua, restava un sottile strato di pasta. Il “Foglio” veniva poi messo su un feltro di lana “Ponitore” e ricoperto di un altro feltro. Molti “Fogli” accatastati insieme con la stessa procedura, venivano poi sottoposti ad una pressa per l’eliminazione dell’acqua residua. Nella cartiera – museo ne esistono due, tuttora funzionanti, risalenti al 1700. Dopo la pressatura i fogli venivano tolti dal levatore e posti l’uno sull’altro creando la così detta “Posta”. Successivamente le “Poste” venivano trasportate nei locali “Spanditoi” per l’asciugatura ad aria. I fogli venivano poi collati con soluzione di gelatina animale e lisciati a mano, previa accurata selezione a seconda della qualità.

L’ambiente della cartiera, nelle sue stratificazioni presenta altri aspetti più “moderni”. Nel 1600, infatti la “pila a maglio” fu sostituita dalle “Olandesi”, nuove macchine capaci di produrre più celermente a costi inferiori. L’esemplare esistente nella cartiera, azionato idraulicamente, fu installato il 18 novembre 1745, come risulta dalla data graffita sull’intonaco di una parte. Questa lavorazione a “mano – macchina” utilizzava, al posto del telaio, un cilindro ricoperto di tela metallica per metà immerso nella pasta di cui sollevava uno strato aderente alla superficie. Lo strato si staccava automaticamente e passava attraverso due rulli feltrati per l’eliminazione dell’acqua. Questa macchina era detta “in tondo” o “a tamburo”. La carta così prodotta a fogli veniva poi messa ad asciugare negli “Spanditoi”.

Il “Museo della carta” si avvale anche di una sala operativa, realizzata in un moderno ambiente sovrapposto, dove vi è una mostra antichi utensili per la fabbricazione e allestimento della carta a mano. A memoria delle numerose cartiere una volta in funzione disseminate lungo il fiume “Canneto”, ora ruderi, e per il godimento dei visitatori. Grande importanza e valore bibliografico assume la dotazione libraria di fonti e testi sulle origini della Carta di Amalfi in lettura presso la biblioteca del museo, in parte donata dal Magister in arte cartarum Nicola Milano fu Filippo.

Informazioni:
Museo della Carta
via Delle Cartiere, 24 – Amalfi
Tel.+ 39 089 83 04 561
www.museodellacarta.it info@museodellacarta.it

Sito archeologico industriale:Museo della Carta di Amalfi
Settore industriale: Industria Cartaria
Luogo: Amalfi, Salerno, Campania, Italia
Testo a cura di: Direttore del Museo della carta di Amalfi




Pirelli HangarBicocca a Milano

Pirelli HangarBicocca, nato nel 2004 dalla riconversione di un vasto stabilimento industriale appartenuto all’Ansaldo-Breda, con i suoi 15.000 metri quadrati è uno degli spazi espositivi per l’arte contemporanea più grandi d’Europa.

Pirelli HangarBicocca affonda le sue radici nel passato industriale del quartiere Bicocca e rappresenta il punto d’arrivo di oltre 140 anni di cultura d’impresa Pirelli.

La storia dell’edificio è strettamente legata alla Breda società fondata nel 1886 dall’Ingegner Ernesto Breda che a partire dal 1903 sposta l’azienda nel quartiere Bicocca. Come lui fanno anche Pirelli, Falck e Marelli, trasformando l’area in uno degli insediamenti industriali più importanti d’Italia.

Nei 200.000 metri quadrati dei nuovi stabilimenti, la Breda produce soprattutto carrozze ferroviarie, locomotive elettriche e a vapore, caldaie, macchine agricole e utensili a cui, durante il primo conflitto mondiale, si aggiunge la fabbricazione di aerei, proiettili e altri prodotti di impiego bellico.

Tra questi stabilimenti c’è anche l’HangarBicocca, allora diviso in corpi di fabbrica diversi per tipologia, origine ed estensione. Lo Shed, per esempio, edificio tipicamente industriale, realizzato con mattoni a vista, di altezza ridotta, con tetti a doppio spiovente e ampi lucernai, è già riconoscibile nelle immagini risalenti alla prima metà degli anni ’20 ed è luogo di produzione di componenti per locomotive e macchine agricole.

Negli anni ’50 lo Shed è ceduto alla Breda Elettromeccanica e Locomotive – prima delle otto sezioni nelle quali si organizza la società dal 1936 – che espande i propri spazi con l’aggiunta, nel 1955, di un edificio cubico voltato a botte che oggi, in HangarBicocca, è lo spazio espositivo chiamato Cubo.

Il capannone che unisce lo Shed al Cubo, eretto tra il 1963 e il 1965, era adibito al montaggio e alla prova di macchine elettriche di grande potenza. Rimasto intatto nelle dimensioni – 9.500 metri quadrati per circa 30 metri di altezza – l’edificio è caratterizzato da tre navate.

A delimitare ad est gli stabilimenti della Breda si trova la ferrovia: una posizione strategica dunque poiché collocata lungo l’asse Milano – Sesto San Giovanni – Monza, prima linea ferroviaria della Lombardia e seconda d’Italia, che garantisce il collegamento con l’Europa continentale tramite il San Gottardo.

Nei primi anni Ottanta la Breda viene ceduta al Gruppo Ansaldo e quasi contestualmente ha inizio un progressivo processo di dismissione delle aree industriali storiche a favore di un quasi totale riassetto urbanistico del quartiere Bicocca. Dopo un decennio di abbandono, l’HangarBicocca (ex Ansaldo 17) è acquistato nel 2004 da Pirelli che ne decide la trasformazione in spazio espositivo per l’arte contemporanea.

Il rilancio del HangarBicocca

Nell’aprile del 2012 Pirelli rilancia HangarBicocca investendo in un progetto di ristrutturazione degli spazi e di completo ripensamento del progetto culturale con l’obiettivo di creare un centro di arte contemporanea di profilo internazionale, aperto gratuitamente alla città, al territorio e a ogni tipologia di pubblico: ogni anno circa 280.000 visitatori italiani e stranieri hanno frequentato le mostre e partecipato ai percorsi e alle attività pensati per avvicinare all’arte contemporanea anche il pubblico non specializzato.

Il progetto nasce dalla convinzione che l’arte contemporanea sia un terreno privilegiato per la ricerca, la sperimentazione e la riflessione critica sui più importanti temi della contemporaneità: valori che appartengono, da oltre 140 anni, alla cultura d’impresa di Pirelli.
Nel corso della sua storia, infatti, l’azienda ha sempre coniugato l’innovazione dei processi produttivi con quella nei linguaggi della comunicazione, partecipando alla creazione di quella “cultura politecnica” che negli anni del boom economico italiano contribuì a superare la tradizionale contrapposizione tra sapere scientifico-tecnologico e tradizione umanistica: un modello che ancora oggi Pirelli ritiene d’ispirazione per uno sviluppo industriale rispettoso della comunità e in grado di raggiungere standard d’eccellenza.

La scelta di investire sull’arte contemporanea e sulla divulgazione presso un pubblico più ampio possibile nasce in forte continuità con questi presupposti: l’arte contemporanea è infatti l’ambito culturale che oggi rispecchia più di altri la ricerca di un continuo confronto tra saperi differenti, la coesistenza di diversi linguaggi espressivi, la vocazione alla multiculturalità.

Oggi Pirelli HangarBicocca è un’istituzione culturale unica nel suo genere, la cui programmazione di mostre personali dei più importanti artisti internazionali si distingue per il carattere di ricerca e sperimentazione e per la particolare attenzione a progetti site-specific, in grado di dialogare con le caratteristiche uniche dello spazio. Inoltre, le attività dedicate al pubblico, ai ragazzi, alle scuole e agli studenti universitari costituiscono una parte fondamentale del progetto Pirelli HangarBicocca. I diversi format HB Kids, HB School, Hb Tour, le visite guidate e le rassegne di film scelti dagli artisti costituiscono un calendario di attività gratuite di grande qualità che coinvolgono il pubblico e lo rendono partecipe in prima persona della vita dell’istituzione.

Le installazioni permanenti al HangarBicocca

La Sequenza, 1971 di Fausto Melotti

Collocata nel giardino di HangarBicocca nel 2010, La Sequenza accoglie il visitatore come una simbolica soglia, momento di passaggio all’arte del presente attraverso l’eredità culturale di un grande maestro del recente passato. L’opera – una composizione di moduli identici costituita da tre livelli di profondità secondo un’alternanza di pieni e di vuoti che rende impossibile coglierla con un unico sguardo – rappresenta il culmine della ricerca di Fausto Melotti, durata oltre quarant’anni, di una scultura anti-celebrativa e anti-monumentale.

I Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer

L’installazione site-specific I Sette Palazzi Celesti, realizzata per HangarBicocca in occasione della sua prima apertura nel 2004, è costituita da sette torri, del peso di 90 tonnellate ciascuna, hanno altezze variabili tra i 14 e i 18 metri e sono realizzate in cemento armato utilizzando come elementi costruttivi moduli angolari ottenuti dai container utilizzati per il trasporto delle merci.
I Sette Palazzi Celesti rappresentano il punto d’arrivo dell’intero lavoro dell’artista tedesco e sintetizzano i suoi temi principali proiettandoli in una nuova dimensione fuori dal tempo: essi contengono infatti in sé l’interpretazione di un’antica religione (quella ebraica); la rappresentazione delle macerie dell’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale; la proiezione in un futuro possibile da cui l’artista ci invita a guardare le rovine del nostro presente.

Sito archeologico industriale: Pirelli HangarBicocca www.hangarbicocca.org
Settore industriale:Industria meccanica
Luogo: Milano, Italia
Proprietà/gestione: Pirelli www.pirelli.com
Testo a cura della: Direzione Corporate Culture – Comunicazione
Image courtesy of: Pirelli; Fondazione ISEC – Archivio Storico Breda/Agostino Osio




I forni fusori del vetro ed il Museo dell’Arte Vetraia di Altare in Liguria

Altare, in provincia di Savona, una piccola cittadina dell’Appennino ligure dove la manifattura del vetro ha origine lontanissime, conserva ancora degli importanti reperti di archeologia industriale come un forno di fusione del XVII secolo. 

Altare e la storia dell’arte vetraia

La storia, e le fonti archivistiche lo confermano, tramanda come l’arte del vetro venne introdotta da una comunità di monaci benedettini stabilitasi ad Altare nel 1130. Grazie all’avvio di questa attività esperti artigiani dalla Normandia e dalla Bretagna giunsero ad Altare, ed ebbe inizio un processo di immigrazione anche dalle altre città di tutta Italia.

Nel 1445 è attestata l’esistenza della prima corporazione, l’Università dell’arte vitrea, sorta per regolamentare l’attività . Alcuni di maestri vetrai svolsero il mestiere in città, altri nelle proprietà situate nelle vicinanze, altri ancora si allontanarono da Altare per impiantare una nuova manifattura o in altre parti d’Italia o all’estero come in Francia, Belgio, Paesi Bassi, Gran Bretagna e – nel XIX secolo – in America Latina, esportando uno stile unico, che ispirata allo stile veneziano, prediligeva la pura creazione a discapito delle finalità funzionali.

Nel dicembre 1856 nasce la Società Artistico Vetraria Anonima Cooperativa facendo seguito ad un accordo tra le 16 famiglie di Altare produttrici di vetro. Queste unirono le vetrerie di Altare in un’unica grande azienda: la Società Artistica di Manifattura del Vetro.

A seguito della II Guerra Mondiale, nonché della Guerra Civile in Italia del 1943, la produzione del vetro di Altare attraversò un periodo di difficoltà. Ad aggravare il tutto ci si aggiunsero l’inflazione e la forte concorrenza straniera che si avvaleva di nuove procedure manifatturiere completamente automatizzate. La tecnica artigianale della soffiatura a mano dei maestri altaresi, se certamente collocava il prodotto a livelli qualitativi superiori, costringeva però a mantenere dei prezzi superiori a quelli di mercato. Tuttavia, la Società Artistico Vetraria fu in grado di superare le difficoltà e di continuare sue attività industriali e commerciali fino al 1978, anno in cui dichiarò il suo fallimento. Nell’asta giudiziaria che seguì , venne aggiudicata a un imprenditore di Abbiategrasso, il Cav Angelo Masserini, il quale si era impegnato a conservare il lavoro a tutti i dipendenti. La S.A.V. prese allora il nome di S.A.V.A.M. Spense i forni nel dicembre del 1992.

L’antico forno di fusione del vetro di Altare – un bene di archeologia industriale da salvare

Per tutto il Medio Evo e nel’età Moderna, il forno conservò la forma da igloo. Diviso in tre sezioni, al piano terreno c’era il focolare, al piano intermedio avveniva la fusione, al piano superiore era collocata la “tempera” dove gli oggetti lavorati subivano un lento raffreddamento. I piani erano in comunicazione tra loro per mezzo di aperture centrali.

Nel centro di Altare, nell’area dell’antica Vetreria Racchetti, spenta nel 1967, si trovano i resti di due
antichi forni fusori da vetro di questa tipologia, attribuiti al XVII secolo. La loro scoperta, risalente al 1991, è stata oggetto di studi e approfondimenti a livello europeo, in particolare da parte dell’associazione francese GenVerrE.

Uno dei due forni è comunque, nelle parti non danneggiate, in buono stato di conservazione.
E’ l’ultimo esemplare rimasto, vincolato dalla Soprintendenza Archeologica, più volte ammirato da archeologi italiani e francesi come un raro tassello della storia della tecnica.

Del forno, carico di quattro secoli di storia, rimangono la parte inferiore, destinata alla combustione, e la volta, che vi è stata posata sopra. La parte inferiore, rimasta integra, presenta quattro fori quadrati, utili all’introduzione dell’aria, necessaria alla combustione della legna consumata nel focolare, per raggiungere temperature all’incirca di 1200°C. La circonferenza del forno è di circa m. 10,50. È circondato da un corridoio, alto circa m. 2, che portava da una parte al forno essiccatore della legna, dall’altra, attraverso un cunicolo, al secondo forno situato a più di 5 metri dal primo, attualmente in pessimo stato di conservazione, destinato probabilmente alla fusione della fritta. Rimane pure pare di una struttura muraria , entro la quale i fornii principali erano inseriti.

Dal confronto dei rilievi fotografici effettuati al momento della scoperta con quelli odierni è possibile
riscontrare come nell’arco di vent’anni i reperti archeologici si siano ulteriormente gravemente deteriorati, per cui un intervento di recupero di queste strutture si rende estremamente urgente.

Il Museo dell’Arte Vetraria Altarese

Nato negli anni ’80 e gestito dall’Istituto per lo Studio del Vetro e dell’Arte Vetraria (I.S.V.A.V.), il MAV conserva la collezione della Società Artistico – Vetraria, ultimo atto di una millenaria storia di produzione vetraria nel paese di Altare, piccolo borgo sulle alture savonesi.

La collezione comprende opere in vetro di tipo artistico, d’uso e per la farmochimica, attrezzature della ex S.A.V., nonché la collezione di libri e riviste conservati nella Biblioteca Specializzata del Vetro. Attività e mostre organizzate in collaborazione con artisti e designer di livello internazionale contribuiscono inoltre alla creazione di una sezione di arte contemporanea.

Sede del Museo è Villa Rosa, preziosa dimora che fa parte di una serie di edifici Liberty che si diffusero nel paese all’inizio del ‘900, in gran parte ancora esistenti. Acquistata dallo Stato nel 1992, dopo i restauri la Villa è stata riportata all’antico splendore e adibita a sede del Museo dell’Arte Vetraria Altarese. Attualmente nei giardini della sede è installata una fornace dimostrativa per la produzione di vetro soffiato che, nel corso dell’anno, viene frequentemente attivata: un’affascinante integrazione della visita museale.

Info
Museo dell’Arte Vetraria Altarese e Istituto per lo Studio del Vetro e dell’Arte Vetraria
Piazza del Consolato 4 17041 Altare (SV) Italy
tel: +39 019 584734 www.museodelvetro.org info@museodelvetro.org

 

Ricette Vetrarie Altaresi#SaveTheDate:

SABATO 10 MAGGIO 2014, ore 17:00
presso il MUSEO DEL VETRO DI ALTARE – Piazza del Consolato, 4 – Altare (Savona)
sarà presentato il libro
Ricette vetrarie altaresi. Note e appunti di fornace
di Maria Brondi Bandano e Luigi Gino Bormioli
Edito da SAGEP Editori

 

Sito archeologico industriale:Forno per la fusione del vetro e Museo dell’Arte Vetraia di Altare
Settore industriale:Industria vetraia
Luogo: Altare, Savona, Liguria, Italia
Proprietà/gestione: Proprietà privata
Testo a cura di: Maria Brondi Bandano




Torviscosa, la città della cellulosa in Friuli Venezia Giulia

Torviscosa, cittadina in provincia di Udine, è un’affascinante company town nata in funzione della produzione di cellulosa a scala industriale e un gioiello dalle linee metafisiche della nostra archeologia industriale.

Una piccola cittadina, simbolo dell’Italia fascista e dei suoi principali riferimenti ideologici: costruita tra il 1937 e il 1942, Torviscosa è una città di fondazione, cioè una di quelle città nuove sorte in Italia negli anni Trenta del Novecento nei territori di bonifica e caratterizzate da architetture di regime. È allo stesso tempo una company town, perché la sua fondazione è legata a una grande azienda italiana, la SNIA Viscosa (da cui Torviscosa prende una parte del nome) che all’epoca si dedicava soprattutto alla produzione di fibre artificiali ricavate dalla cellulosa e che trova in questa parte della pianura friulana ancora poco sfruttata un territorio ideale per un esperimento “autarchico”: la coltivazione su larga scala di canna comune da cui ricavare la materia prima per le sue produzioni e l’insediamento di un nuovo grande stabilimento industriale per la sua lavorazione.

Torviscosa, company town del Nord-Est

Il visitatore che entra a Torviscosa non ha dubbi sul ruolo industriale di questa cittadina: il grande piazzale di ingresso all’abitato, disegnato da Giuseppe De Min nel 1937, è dominato per metà dagli edifici connessi all’attività industriale e dal grande edificio di rappresentanza del CID (Centro Informazione Documentazione), costruito dalla SNIA agli inizi degli anni Sessanta come biglietto da visita della città industriale e luogo di ricevimento delle delegazioni straniere. Utilizzato fino alla fine degli anni Settanta per ospitare la biblioteca tecnica aziendale, è stato recentemente restaurato e riaperto come sede espositiva. Accanto al CID si innalza la torre panoramica, alla cui sommità si apre un vano quadrangolare con funzione di belvedere, un tempo salottino per gli alti dirigenti della SNIA che qui accoglievano gli ospiti per offrire loro un punto privilegiato d’osservazione sulla città e l’intero territorio circostante. L’altra metà della piazza, a ovest, è invece una spazio sociale, con il teatro e l’edificio del dopolavoro ristoro. Il piazzale, oggi dedicato a Franco Marinotti, fondatore della città e all’epoca amministratore delegato e poi presidente della SNIA, si chiamava in origine “piazza dell’Autarchia”, per sottolineare che l’intero insediamento industriale e urbanistico era stato pensato in funzione del modello economico del regime.

Accanto allo stabilimento, architetti e ingegneri disegnarono e fecero costruire la nuova città, immaginata per espandersi e ospitare fino a 20.000 persone e organizzata per aree funzionali. La struttura originaria non ha subito modifiche sostanziali e ancora oggi sono quindi riconoscibili il villaggio operaio, le case per i tecnici, le ville dei dirigenti, gli spazi del lavoro e quelli per il tempo libero e lo sport. Il fulcro della vita pubblica era rappresentato dalla piazza “Impero” (oggi piazza del Popolo). Progettata dall’architetto Giuseppe De Min nel 1940 secondo il gusto architettonico dell’epoca che si ispirava alle piazze metafisiche di Giorgio De Chirico, è dominata dall’edificio del Comune caratterizzato dalla torre dell’arengario e dal suo balcone.

Il villaggio operaio di Torviscosa

Poco lontano, il villaggio operaio è costituito da due gruppi di case di diversa tipologia. Al primo gruppo appartengono le case chiamate “colombaie” per le loro caratteristiche architettoniche che ricordano le casette per i colombi. Questo gruppo di abitazioni, costruito a partire dal 1943 ma completato solo negli anni Sessanta, è composto da dieci blocchi di case a schiera disposti a coppie secondo l’asse est – ovest. Ogni blocco si compone di cinque alloggi. I prospetti principali sono caratterizzati dagli archi che segnano l’ingresso alle singole abitazioni, mentre i prospetti posti a sud presentano grandi arcate a doppia altezza, una sorta di brise soleil per il lato più esposto al sole. Il secondo gruppo, chiamato “case gialle”, è stato realizzato tra il 1941 e il 1944. È formato da 12 blocchi di edifici in linea disposti parallelamente su quattro file orientate nord – sud. I prospetti sono scanditi dalla modularità delle finestre e nell’insieme queste case risultano più modeste delle colombaie.

La fabbrica di Torviscosa

La parte più vecchia delle strutture industriali risale agli anni 1937 – 1940 e fu progettata dall’architetto Giuseppe De Min. Comprende vari edifici rispondenti a scopi diversi e quindi anche di forme e volumi differenti a seconda delle funzioni a cui erano destinati, ma tutti accomunati dalle facciate rivestite a mattoni rossi. Il nucleo storico della fabbrica, destinato alla produzione della “cellulosa autarchica” derivata dalla lavorazione della canna gentile, fu inaugurato il 21 settembre del 1938 alla presenza di Benito Mussolini. In seguito, il reparto cellulosa venne ampliato con il cosiddetto “raddoppio” del 1940 e nel periodo fra il 1946 e 1948 fu costruito il nuovo reparto sodacloro. L’intero reparto cellulosa è stato dismesso nel 1991.

Accanto al portale d’ingresso, costituito da colonne rivestite in mattoni, ci sono due statue monumentali di Leone Lodi realizzate nel 1938 e dedicate all’agricoltura e all’industria, a sottolineare la duplice natura del progetto imprenditoriale di Torviscosa. La statua che si riferisce all’agricoltura è intitolata “La continuità della stirpe nel lavoro” e rappresenta una donna seduta con un bambino sulle ginocchia e un uomo in piedi con un badile. La statua dedicata all’industria, invece, raffigura un cavallo trattenuto da un uomo e si intitola “Sintesi di Forza, Ragione e Fede”.

Immediatamente dietro alla portineria, la palazzina degli uffici è composta da una parte centrale di tre piani e due ali laterali simmetriche che discendono a due e un piano. In corrispondenza dell’edificio degli uffici inizia un viale lungo circa 1 km sul quale si affacciano i vari edifici che componevano l’impianto per la produzione di cellulosa. A metà circa del complesso è posto il Laboratorio Ricerche e Controlli, facilmente riconoscibile dall’iscrizione. Sull’altro lato del viale sorge invece l’edificio destinato alla produzione di vapore ed energia elettrica, collegato alla struttura che conteneva l’impianto cellulosa per mezzo di un ponteggio.

Poco oltre si stagliano le due torri Jensen destinate alla produzione di bisolfito di calcio. La prima, quella più a nord, fu realizzata nel 1938 mentre la seconda fu costruita nel 1940 durante i lavori del raddoppio dello stabilimento. Sono alte 54 metri, hanno una pianta circolare e poggiano su un unico basamento rettangolare. Esternamente ripropongono le forme dei fasci littori; la lama dell’ascia littoria che sporgeva dalla torre nord fu abbattuta dagli operai il 26 luglio del 1943. Le due torri sono collegate alla sommità da un percorso orizzontale che costituiva il passaggio per gli operai addetti al reparto.

Torviscosa oggi

Il sito industriale è tutt’ora sede di alcuni insediamenti che utilizzano parte delle strutture. Alcune di queste sono state recuperate o sono ora oggetto di ristrutturazione.

Sito archeologico industriale: La company town di Torviscosa
Settore industriale:Industria della cellulosa
Luogo: Torviscosa – Udine – Friuli Venezia Giulia
Proprietà/gestione: Le strutture del sito industriale appartengono alle varie aziende attualmente insediate www.comune.torviscosa.ud.it
Testo a cura di: Per la parte relativa al sito archeologico industriale sono state utilizzate le schede MBI del SIRPAC – Sistema Informativo Regionale del Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia e la relazione “Architetture storiche presenti nel Comune di Torviscosa” redatta nel 1995 dall’arch. Monica Bellantone per il Comune di Torviscosa.
Image courtesy of: Comune di Torviscosa




La ex Officina Squadra Rialzo di Milano Centrale

La Fondazione FS Italiane, in occasione delle Giornate FAI di Primavera del 22 e 23 marzo 2014, ha aperto al pubblico la ex Officina Squadra Rialzo di Milano Centrale.

Le Squadre Rialzo sono così definite nel gergo ferroviario poiché attrezzate con appositi cavalletti che consentono il sollevamento delle vetture, o meglio ”il rialzo”, necessario per accedere ai carrelli e alle altre apparecchiature delle carrozze durante gli interventi di manutenzione.
La Squadra Rialzo di Milano Centrale viene costruita nel 1931 nell’ambito del progetto della nuova stazione viaggiatori e delle complesse opere di ammodernamento e potenziamento del nodo di Milano.

Durante le Giornate FAI di primavera il sito ha ospitato una mostra dedicata all’evoluzione della trazione elettrica in Italia, paese pioniere nel campo, a partire dalla fine del XIX secolo.
È stato possibile salire a bordo di alcune vetture storiche, tra le quali:
la carrozza “sala stampa” dei mondiali di calcio Italia ‘90, la vettura ristorante per treni internazionali TEE (Trans Europe Express), una carrozza dell’ex Treno presidenziale, il primo Pendolino, l’elettromotrice “Varesina” e le più significative locomotive testimoni dell’evoluzione della trazione elettrica.
Una locomotiva a vapore accesa e in manovra è stata l’attrazione dell’intera giornata per i più piccini, ma non solo.

La ex Officina di Milano Centrale fa parte del network di 11 siti, individuati da Fondazione FS Italiane sull’intero territorio nazionale, utilizzati per il deposito e il restauro dei rotabili storici delle Ferrovie Italiane, proteggendoli dal degrado.
La Fondazione FS Italiane, che il 6 marzo ha festeggiato il suo primo anno di attività, ha lo scopo di valorizzare e preservare l’inestimabile patrimonio storico, tecnico, ingegneristico e industriale del Gruppo FS Italiane.
Per informazioni sulla Fondazione FS italiane visitate il sito www.fondazionefs.it

Sito archeologico industriale: ex officina Squadra Rialzo di Milano Centrale
Settore industriale:Industria Ferroviaria
Luogo:Milano – Lombardia
Proprietà/gestione: Fondazione FS italiane
Testo a cura di:Fondazione FS italiane
Image courtesy of:Paola Sacconi

 




Il Birrificio Menabrea di Biella

La Birra Menabrea Spa è un gioiello di archeologia industriale ancora attivo. Fondata a Biella nel 1846 è la più antica birreria italiana esistente.

 

La storia di Birra Menabrea, esempio di archeologia industriale tutto italiano

Con più di 160 anni di attività, Birra Menabrea ha indubbiamente contribuito a fare la storia della birra in Italia.

La sua fondazione risale infatti al 1846, quando il sig. Welf di Gressoney ed i fratelli Antonio e Gian Battista Caraccio decisero di dar vita ad un laboratorio per la produzione della birra. Nel 1854, la birreria venne affittata a Jean Joseph Menabrea e Antonio Zimmermann, che la acquistano poi nel 1864. A seguito dell’uscita di Zimmermann dalla società, fu proprio Giuseppe Menabrea-non più Jean Joseph, poiché la lingua ufficiale era ormai l’italiano- a costituire, il 6 luglio 1872, la “G. Menabrea e figli”.

L’applicazione della tecnica a bassa fermentazione, all’epoca poco diffusa, e l’utilizzo di materie prime qualitativamente eccellenti, prima su tutte, l’acqua delle fonti biellesi, hanno caratterizzato fin da subito Birra Menabrea e ne hanno decretato il successo.

Con la morte del patriarca, avvenuta nel 1881, gli eredi che si sono succeduti, oltre a contribuire alla diffusione del marchio in Italia, hanno ottenuto importanti onorificenze da parte dei regnanti. Nel 1896, la società passa nelle redini di Emilio Thedy e Agostino Antoniotti, mariti delle sorelle Menabrea. Da quel momento in poi, sarà la famiglia Thedy a guidare l’Azienda.

Con la fine del 1800, arrivano gli attestati di riconoscimento anche a livello internazionale: la Medaglia d’Argento all’esposizione di Torino, il Diploma d’Onore e Croce di Digione in Francia, a Monaco in Germania e a Gand, in Belgio. Nel nuovo secolo, il palmarès di Birra Menabrea si arricchisce di prestigiosi e numerosi premi che si susseguono ininterrottamente. Tra questi si ricordano quattro Gran Premi e Medaglie d’Oro alle esposizioni di Torino, Milano, Roma, Bruxelles e Parigi.

Nel 1991, l’Azienda entra a far parte del Gruppo Birra Forst, azienda birraria dell’Alto Adige nota per la qualità dei suoi prodotti ed il rispetto della natura. L’accordo, siglato da Paolo Thedy, quarto discendente della dinastia, è finalizzato a riaffermare l’orgoglio di una birra tutta italiana ed a rafforzare ulteriormente la presenza commerciale sul territorio. Birra Menabrea mantiene comunque intatta la sua forte identità ed indipendenza, riuscendo a conservare viva la cultura e la tradizione birraria, e ritagliarsi un posto d’onore nel panorama internazionale.

Dal 1997 al 2011, Birra Menabrea sale infatti sui gradini più alti del podio al World Beer Championships di Chicago, autorevole concorso annuale promosso da esperti del settore, ottenendo Medaglie d’Oro e d’Argento. E’ una consacrazione per l’Azienda biellese, che dal 2005, dopo la scomparsa di Paolo Thedy, passa sotto la direzione del figlio, Franco Thedy, quinto discendente della famiglia.

La struttura produttiva del Birrificio Menabrea

Situato nel centro storico di Biella, lo stabilimento in cui viene prodotta la Birra Menabrea mantiene, ancora oggi, intatto il fascino della tradizione di più di 160 anni di attività.

Presso lo stabilimento, che si estende su di una superficie di 7.500 m2, dei quali 4.500 coperti, vengono realizzate tutte le fasi di lavorazione della birra: dalla produzione fino al confezionamento.

Lo stabilimento Menabrea è composto da una sala cottura in grado di lavorare 570 ettolitri al giorno di mosto, da n. 4 cantine di fermentazione, che ospitano fino a 9.500 hl di birra, da cantine di deposito che riescono a contenere fino a 9.000 hl di birra e da un sistema di filtraggio da 150 hl all’ora.
A questi si aggiungono un impianto di infustamento che consente la produzione di 300 fusti/ora ed un innovativo e moderno impianto di imbottigliamento, completato alla fine del 2012, che è in grado di garantire una capacità produttiva di 15.000 bottiglie/ora. Realizzato con le migliori e più moderne tecniche costruttive, rispettando gli standard di compatibilità ambientale, il nuovo impianto di imbottigliamento rappresenta l’ultimo investimento industriale, in termini temporali, realizzato da Birra Menabrea. Una scelta in linea con una strategia aziendale che favorisce lo sviluppo di un processo di produzione efficiente, basato su di un severo controllo dei parametri qualitativi relativi al completo iter produttivo.

Per Birra Menabrea la cura, l’attenzione, la qualità e la naturalità sono prerogative imprescindibili: dalla selezione accurata delle materie prime (prima su tutte l’acqua cristallina delle montagne biellesi, ma anche il malto d’orzo primaverile, il lievito, il mais, il luppolo dell’Hallertau) alla sapiente miscelazione e fermentazione, fino alla filtrazione della birra.
Ad esse, si affianca un processo di produzione che rispetta i tempi della tradizionale: al fine di mantenere intatte le qualità organolettiche ed assicurare una maggiore fragranza del prodotto.
La peculiarità ed il successo di Birra Menabrea risiedono proprio nella capacità di produrre una birra d’élite, che riesce a coniugare il concetto di fatto-a-mano e di rispetto della tradizione ad un ambito produttivo tecnologicamente avanzato

Il Museo Birra Menabrea, la biblioteca della birra ed il Ristorante 

Accanto allo storico stabilimento dell’azienda, a Biella, si trova il Museo della Birra Menabrea, piccola collezione privata  che racchiude un eccezionale patrimonio di cultura e tradizione. All’interno della sede storica, è inoltre presente anche la Biblioteca della birra, che conta più di 300 pubblicazioni e documenti originali in latino, italiano, francese e tedesco, alcuni dei quali risalgono al 1500. Entrambe le strutture sono visitabili su prenotazione.

Annesso alla fabbrica e ricavato dalle vecchie stalle dello stabilimento, si trova inoltre il Ristorante Menabrea, dall’ambiente informale ed accogliente. Presso il locale è possibile cenare abbinando le diverse referenze Menabrea ad una cucina locale tipica e gustosa.

Sito archeologico industriale: Il Birrificio Menabrea
Settore industriale: Settore birraio
Luogo:Biella – Piemonte
Proprietà/gestione: Gruppo Birra Forst www.birramenabrea.com
Testo a cura di:Birrificio Menabrea




Il Molino Stucky a Venezia – ora Hilton Molino Stucky Venice

Il Molino Stucky a Venezia è uno di quei siti di archeologia industriale in Italia nel quale l’efficienza si è sposata con la volontà di erigere una “bella architettura”.

Tra il 1882 ed il 1883, l’imprenditore svizzero Giovanni Stucky scelse l’area estrema dell’isola della Giudecca nella laguna veneziana per dare l’avvio all’attività del primo molino. Con precisione, l’area sul quale sorse era quella della chiesa e convento di S. Biagio e Cataldo, soppresso da Napoleone nel 1809, situati tra il rio di S. Biagio, il canale della Giudecca e il rio dei Lavranieri.

L’iniziativa di Giovanni Stucky fu molto interessante e proficua per la città di Venezia che, per sopperire al fabbisogno della popolazione, è sempre stata strettamente collegata all’attività molitoria dell’entroterra. Il Molino Stucky eliminava cosi una serie di passaggi di trasporto necessari per i molini dell’entroterra.

Il Molino Stucky e la prima fase d’edificazione: efficienza e razionalità

La funzionalità a scopi di efficienza, più che l’ostentazione decorativa , è la caratteristica architettonica del primo molino. Molto presto l’attività produttiva passò da 500 quintali di farina al giorno a 800 e a 1000 e la fabbrica venne ampliata per soddisfare le crescenti richieste. Vennero allargate le fondamenta di S.Biagio e dietro il primo molino fu eretto un edificio a tre piani per il deposito dei prodotti finiti e due case di abitazione per il personale. Nei pressi sorsero anche un edificio per le macchine e l’officina meccanica.

Sul finire degli anni ottanta, vicino al molino principale, dove in precedenza si apriva il campo davanti alla chiesa del convento, venne costruito un secondo molino di simili proporzioni che si affacciava sul canale della Giudecca, formando così una piazza a mo’ di corte. I locali interni del molino erano costituiti da grandi stanzoni senza divisioni, con soffitti a travatura lignea sostenuti da pilastri in ghisa che formavano il tipo di architettura industriale comune ,in questi tempi, alla generalità delle costruzioni adibite a opifici.

Ancora privi di interesse artistico i Molini Stucky si presentavano come una fabbrica a pianta rettangolare dalle rigide linee costruiti su sei piani con finestre ornate da rivestimenti in calcare d’Istria che si snodavano a intervalli regolari lungo le pareti.

Il Molino Stucky e la seconda fase d’edificazione: la bella architettura industriale

La svolta per questo complesso industriale avviene tra il 1895 e il 1897 quando Giovanni Stucky affida la costruzione del silos e della torre d’angolo all’architetto tedesco Ernst Wullekopf di Hannover. Nonostante l’opposizione della Commissione d’ornato, il progetto è rivoluzionario, si rifà infatti ad un modello di sviluppo longitudinale di reminiscenza tedesco- medievale. Uso a vista del cotto, pinnacoli e torricelle desunti da cattedrali e municipi medievali: un vero esempio di eclettismo architettonico. Il complesso Stucky inserisce così, in questa parte di paesaggio veneziano, elementi di indiscussa novità e instaura una vitale dialettica formale e ambientale con il resto della città. Venezia vede dunque sul finire del XIX secolo un’architettura tipicamente nordica in stile neogotico regalando all’archeologia industriale italiana uno dei siti più prestigiosi dell’archeologia industriale italiana.

Nel 1884, all’inizio dell’attività, la possibilità molitoria è di 600 q.ogni 24 ore . Con la costruzione del nuovo silos si raggiungono 2.500 q.al giorno.

Il Molino Stucky dai nuovi ampliamenti alla chiusura

Nei primi anni del ‘900 nuovi ampliamenti interessano il sito del Molino Stucky:

Nel 1903 viene costruzione di un grosso pastificio annesso al molino e nel 1907 vediamo la costruzione del molino autonomo per granoturco dove viene ripreso il repertorio formale del progetto Wullekopf.

Nel 1910 la storia del Molino Stucky si tinge di nero con l’omicidio di Giovanni Stucky per mano di un operaio. Il 22 maggio 1910 La Gazzetta di Venezia diffondeva così la notizia:

“L’orribile assassinio del cav. Giovanni Stucky. Ucciso con un colpo di rasoio a pochi passi dal figlio ingegner Gian Carlo mentre entrava nella stazione ferroviaria. La folla indignata tenta di fare giustizia sommaria. L’enorme luttuosa impressione a Venezia”.

Dopo un rinnovo parziale degli impianti nel 1920-26, ed il passaggio dalla proprietà della famiglia Stucky ad S.p.A. nel 1933, l’attività molitoria chiude definitivamente nel 1955.

Il Molino Stucky oggi Hilton Molino Stucky Venice

Nel 1980 la delibera del Consiglio Comunale stabilisce la ristrutturazione del complesso e la sua trasformazione in centro alberghiero e culturale. Dopo alcuni passaggi di proprietà ,oggi l’edificio del Molino Stucky ospita l’albergo Hilton e centro congressi.

L’Hilton Molino Stucky Venice è stato inaugurato il 1° giugno 2007. L’Hotel a 5 stelle nasce dal sapiente restauro di 13 edifici costituenti dell’antico Mulino Stucky, una delle testimonianze di architettura industriale più note della città di Venezia.

Il mantenimento del nome e della struttura nasce dal desiderio di conservare il ricordo storico e rispettare la volontà del fondatore Giovanni Stucky di “instaurare un rapporto con la città”.

La storia dell’ex-granaio si riflette nelle sue travi imponenti e nei soffitti a forma di silos, nelle torrette appuntite e negli esterni restaurati di mattoni rossi, nei giardini rigogliosi e nelle finestre alte e strette. Il mosaico originale del mulino, rappresentante Demetra, la dea della mietitura, impreziosisce il soffitto della Penthouse Tower.

Un elegante orologio è situato sopra l’ingresso principale di uno degli edifici e la campana originale, che annunciava la fine della giornata lavorativa, è ancora appesa nella lobby.

Il Molino Stucky, composto da 13 edifici distribuiti su nove piani, è una delle costruzioni più alte della città.
L’hotel ospita 379 camere e il più grande centro congressi alberghiero della città, accoglie anche il più grande centro benessere e la prima e unica piscina sul rooftop di Venezia.

Info:
Hilton Molino Stucky, Venice
Giudecca 810, 30133, Venice, Italy Tel: +39 041 2723 311 Fax: +39 041 2723 490
www.molinostuckyhilton.it / vcehi_service_hotline@hilton.com

 

Sito archeologico industriale: Il Molino Stucky
Settore industriale:industria alimentare – macinazione grani e pastificio
Luogo: Venezia – Veneto
Proprietà/gestione: Hotel Hilton
Testo a cura di:Dott.sa Raffaella Giuseppetti .Materiale estratto da “Un castello in laguna. Storia dei molini Stucky” di Raffaella Giuseppetti Edizioni Il Cardo 1995. Per la sezione “Il Molino Stucky oggi : Hilton Molino Stucky Venice” si ringrazia Hilton Molino Stucky Venice




Le Officine Aeronautiche Caproni di Taliedo – Officine del Volo a Milano

Le Officine Aeronautiche Caproni di Taliedo di via Mecenate a Milano sono una delle testimonianze più significative della grande Milano industriale. Oggi recuperate, regalano spazi unici per caratteristiche e storia.

Storia delle Officine Aeronautiche Caproni di Taliedo, bene di archeologia industriale

Oltre le mura della città, dalla parte di Porta Vittoria, ad est del fiume Lambro, sorgeva l’area denominata “Cascina Taliedo” che, sino alla prima decade del 1900, si caratterizzava per l’attività agricola. Grazie però ai sui ampi spazi disponibili a ridosso della la città, nel 1910 tale area venne selezionata per ospitare la competizione aeronautica “Circuito Aereo Internazionale di Milano”. Nasce così il primo campo di volo cittadino.

Successivamente, il Ministero della Guerra, decise di impiantare nell’area del Circuito Aereo un insediamento militare permanete che crebbe notevolmente a cavallo della Prima Guerra Mondiale attraverso la realizzazione di nuovi hangar. È in questo periodo che entra in scena l’ing. Giovanni Caproni, legando per sempre il proprio nome alla zona di Taliedo.

L’ingegnere Gianni Caproni fu uno dei più grandi pionieri dell’aviazione mondiale. Iniziò la sua attività di costruttore e sperimentatore nel 1909 e nel maggio 1910 fece volare il suo primo aeroplano.
Si stabilì prima a Malpensa poi a Vizzola Ticino producendo molti tipi di aeroplani che si aggiudicarono numerosi successi e primati. Per avvicinarsi alla città e reperire così manodopera più facilmente, l’ing. Caproni decise di spostare le sue officine nella zona di Taliedo avvantaggiandosi della presenza del campo di volo militare per il decollo e l’atterraggio dei suoi aeromobili.

Dal 1915 al 1918 lo stabilimento di Taliedo produsse un ingente numero di biplani e triplani. Dopo una battuta d’arresto fisiologica nel periodo durante le due guerre, con l’arrivo del Fascismo la produzione civile e militare riprese a tutto regime. La fabbrica venne ampliata sino ad estendersi dall’altro lato di via Mecenate, un sottopasso congiungeva le due parti dello stabilimento.

Agli inizi degli anni ’40 lo stabilimento si avvantaggiò di una nuova schiera di capannoni in parte affacciati su via Fantoli, questi i nomi delle nuovi grandi edifici: Duralluminio, Re 2000, Nuova aviorimessa montaggio duralluminio, Montaggio C. Durante la Seconda Guerra Mondiale la società Aeroplani Caproni raggiunse i 50.000 dipendenti.

Alla fine della guerra, con la drastica diminuzione delle commesse militari, nonostante gli svariati tentativi di riconversione verso la produzione di carrozzerie, veicoli ferrotranviari, elettrodomestici, ecc. , l’azienda fu costretta a chiudere per bancarotta nel 1950. L’intera area di Taliedo perse così la sua vocazione aeronautica trasformandosi in zona residenziale. Per far fronte ai debiti, i capannoni della Caproni non furono demoliti, ma gradualmente venduti o affittati salvandoli dall’abbandono.

Officine del Volo  e il recupero di archeologia industriale delle ex Officine Aeronautiche Caproni 

A seguito della chiusura delle Officine Aeronautiche Caproni di Taliedo, gli spazi, pregevole esempio di archeologia industriale, sono stati via via acquistati e ristrutturati per svolgere svariate funzioni.

Tra tutti gli interventi di recupero, uno in particolare merita la nostra attenzione grazie all’ottima riuscita dell’intervento di restauro. Stiamo parlando dei capannoni corrispondenti ai numeri civici 76/5 di via Mecenate. La coppia formata dai due edifici, distribuiti su due piani in altezza, è caratterizzata dall’utilizzo dei tipici mattoni rossi e da finestre ogivali, inoltre uno dei due presenta una bella copertura a capriate in legno. Stiamo parlando degli edifici che ospitano oggi le Officine del Volo

Nate dal desiderio dell’architetto Nicola Gisonda di effettuare un vero e proprio intervento di restauro di un segmento delle ex Officine Aeronautiche Caproni, le Officine del Volo recuperano e mantengono il fascino di una storica architettura industriale milanese dei primi del ‘900, trasformandosi in un luogo attuale e dinamico, sempre in divenire.

L’architetto Gisonda, passando davanti a questi luoghi, capì che la ex Fabbrica Caproni poteva passare idealmente il testimone alla Milano del lavoro di oggi. Ovvio che la ristrutturazione non potesse essere un semplice lavoro di progettazione e muratura. Non si doveva ricostruire, ma far rinascere. Così è stato. Tutto ciò che è stato possibile recuperare è stato recuperato.
I legni del parquet, delle capriate del tetto, i mattoni delle facciate, le pietre, gli intonaci dei muri e le vetrate sono state restaurati e ripuliti mediante particolari tecniche che ne hanno riportato alla luce le caratteristiche di originalità salvaguardando i segni del tempo.

Il progettista inoltre seguendo sempre il suo iniziale obiettivo “non ricostruire ma far rinascere”, ha utilizzato per la realizzazione dei nuovi elementi i tre materiali originari dell’intero fabbricato: cemento, legno e ferro. Ha disegnato inoltre elementi di design leggibili in tutto lo spazio: la grande scala esterna in ferro è quasi una passerella sospesa; la recinzione, in lamiera piegata di acciaio corten, disegna il profilo alare di un aereo investito e sospinto dal vento; l’ascensore, elemento modernissimo, è realizzato in cristallo e acciaio. Tutto questo ha comportato un impegno che nessun altro luogo della Milano del lavoro oggi può vantare.
Il complesso delle Officine del Volo risulta così composto di tre sale, ognuna con caratteristiche architettoniche e decorative proprie (la sala Monoplano, la sala Biplano e la sala Eliche) per un totale di 1.500 mq, dotate di attrezzature tecnologiche e moderne; il risultato è un’unione sofisticata che unisce passato e presente.

Grazie a una spiccata abilità imprenditoriale e a una gestione accurata e attenta ai dettagli, Officine del Volo è oggi uno spazio iconico, riconosciuto a livello nazionale e internazionale.

Tra le tante attività che vi si sono svolte in particolare segnaliamo le riprese dei film Chiedimi se sono felice di Aldo, Giovanni e Giacomo e Happy Family di Gabriele Salvatores, le riprese di programmi come Masterchef e Fashion Style, spot pubblicitari tra cui Fiat e Acqua Vitasnella, eventi di Swarovski, Eni, BMW, Estee Lauder, il cinquantesimo anniversario di GQ AMERICA ed eventi moda di Jacob Cohen, Dsquared, Calvin Klein, Versace e Armani.

10 Anni di Officine del Volo – Storia per immagini di uno spazio di successo

mostra noinaugurazione

#SaveTheDate

Officine del Volo festeggia quest’anno i suoi 10 anni di attività attraverso una mostra che ripercorre la storia del sito attraverso un racconto per immagini, inserito in un’originale installazione allestita presso il bistrot Corsia del Giardino.

La mostra sarà visitabile fino al 3 marzo 2014
Corsia del Giardino – Via Manzoni 16, Milano
Tutti i giorni dalle 9.00 alle 20.30

 

Sito archeologico industriale: Le Ex Officine Aeronautiche Caproni di Taliedo
Settore industriale:aereonautica
Luogo: Milano-Lombardia
Proprietà/gestione:Officine del Volo
Testo a cura di:Officine del Volo
www.officinedelvolo.it




La Grande Miniera di Serbariu e il Museo del Carbone in Sardegna

La Grande Miniera di Serbariu, a Carbonia in Sardegna, oggi in parte fruibile e sede del Museo del Carbone, è un bene prezioso del nostro patrimonio industriale e sito posto sotto gli auspici dell’UNESCO.

La Grande Miniera di Serbariu e l’archeologia industriale in Sardegna

Inserita all’interno del Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna (posto sotto gli auspici dell’ UNESCO), la Miniera di Serbariu, nata attorno al giacimento carbonifero di Serbariu – Nuraxeddu, è stata la principale miniera del bacino carbonifero del Sulcis caratterizzandone l’economia della zona.

La Miniera di Serbariu, attiva dal 1937 al 1964, con un’estensione pari a 33 ettari di superficie, 9 pozzi di estrazione (dal pozzo n.° 1 al n.° 7, più Pozzo Nuraxeddu Vecchio e Pozzo del Fico), 100 Km di gallerie sotterranee per una profondità massima di 179 metri dalla superficie topografica, ha rappresentato tra gli anni ’30 e ’50 del ‘900 una delle più importanti risorse energetiche d’Italia. Per cavare il carbone furono reclutati lavoratori da tutta Italia, raggiungendo il numero di 18.000 di cui 16.000 minatori; ed è proprio in funzione dell’attività estrattiva nella regione del Sulcis che nasce Carbonia, esempio di città in stile razionalista di impronta fascista, con case per le maestranze, alberghi operai, cinema e spaccio. I minatori, che lavoravano 24 ore su 24 divisi su tre turni, venivano pagati con una moneta speciale con inciso sopra Sulcis, spendibile nel paese.

La Miniera di Serbariu venne chiusa ufficialmente nel 1971, lasciando il sito in preda dell’incuria e dell’abusivismo, finché l’amministrazione comunale intervenne acquistandola, era il 1991. I lavori di recupero presero il via nel 2002.

Il 3 novembre 2006 la Grande Miniera di Serbariu, alla presenza degli alti rappresentati della politica nazionale, del sindaco e di tutta la popolazione di Carbonia, ha riaperto i suoi cancelli al suono della vecchia sirena, rimessa in funzione da un antico minatore, commuovendo tutti i presenti per i quali quella stessa sirena aveva risuonato giorno dopo giorno scandendone la vita. Perché l’archeologia industriale non è solo il recupero di siti e macchinari, ma anche e soprattutto la conservazione e la trasmissione del patrimonio immateriale come documento della memoria collettiva.

Il progetto per il recupero e la valorizzazione del sito prevedeva l’utilizzo dei diversi edifici quali sedi permanenti di attività culturali, scientifiche, accademiche e artigianali. La riconversione, ancora in via di completamento, ha reso fruibili gli edifici e le strutture minerarie che oggi costituiscono il Museo del Carbone, il Museo PAS Paleoambienti Sulcitani E.A.Martel, il Centro di Documentazione di Storia Locale e il Centro Ricerche Sotacarbo.

Il Museo del Carbone di Carbonia e la valorizzazione del patrimonio industriale in Sardegna

Il Museo del Carbone di Carbonia include i locali della lampisteria, della galleria sotterranea e della sala argani. Nella lampisteria ha sede l’esposizione permanente sulla storia del carbone, della miniera e della città di Carbonia; l’ampio locale accoglie una preziosa collezione di lampade da miniera, attrezzi da lavoro, strumenti, oggetti di uso quotidiano, fotografie, documenti, filmati d’epoca e videointerviste ai minatori.

La galleria sotterranea mostra l’evoluzione delle tecniche di coltivazione del carbone utilizzate a Serbariu dagli anni ’30 alla cessazione dell’attività, in ambienti fedelmente riallestiti con attrezzi dell’epoca e grandi macchinari ancora oggi in uso in miniere carbonifere attive. La sala argani, infine, conserva intatte al suo interno le grandi ruote dell’argano con cui si manovrava la discesa e la risalita delle gabbie nei pozzi per il trasporto dei minatori e delle berline vuote o cariche di carbone.

Il Museo del Carbone è stato arricchito dall’allestimento dei servizi aggiuntivi, vi trovano spazio infatti un bookshop, nel quale è possibile acquistare libri e gadgets, una caffetteria e una sala conferenze con 130 poltroncine e moderno impianto audio-video.

Il Centro Italiano della Cultura del Carbone (CICC) e la gestione del patrimonio industriale

Il Centro Italiano della Cultura del Carbone (CICC) nasce nel 2006 come associazione senza scopo di lucro tra il Comune di Carbonia e il Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna con lo scopo di gestire il sito della Grande Miniera di Serbariu, promuovere e sostenere la conservazione, la tutela, il restauro e la valorizzazione di tutte le strutture e i beni della ex Miniera, con particolare attenzione all’inalienabilità del materiale museale e alla sua catalogazione e sistemazione, al potenziamento e alla promozione del Museo ad essa collegato. Nel 2011 entra a far parte dell’associazione anche la Provincia di Carbonia-Iglesias.

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Il Centro Italiano della Cultura del Carbone (CICC) è Anchor Point ERIH ITALIA

 

 

Riconoscimenti e partenariati – La Grande Miniera di Serbariu sotto l’egida UNESCO

La Grande Miniera di Serbarium è posta sotto gli auspici dell’UNESCO, in quanto parte del Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna. Il Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna, infatti, è uno dei 58 geoparchi all’interno del European Geoparks Network (EGN) e i membri del European Geoparks Network sono, per diritto, membri del Global Geoparks Network, coordinata dall’UNESCO (GGN):

Il Global Geoparks Network coordinato dall’UNESCO e la European Geoparks Network sono state costituite in parallelo dopo molti anni di comune concertazione e pianificazione. Basandosi su principi condivisi riguardo la filosofia e la gestione, e con l’intento di applicare gli standard di alta qualità del modello Europeo ad un contesto più ampio, l’UNESCO ha deciso di includere di diritto i Geoparchi Europei aderenti al European Geoparks Network nel Global Geoparks Network.”

Si chiarifica che non è in atto alcun procedimento per la fuoriuscita dall’European Geoparks Network – EGN (per approfondimenti qui la Nota Stampa del 06/02/2014)

Nel 2011 la città di Carbonia si è aggiudicata la II edizione del Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa, grazie alla realizzazione dei progetti di recupero e riqualificazione dell’impianto urbanistico e architettonico della città e dell’area mineraria (Carbonia – The Landscape Machine).

Dal 2012 il CICC è membro, in qualità di rappresentante per l’Italia, del European Coal Mining Museums Network, costituita dai sei principali siti minerari europei: Lewarde CHM Centre Historique Minier du Nord Pas-de-Calais per la Francia, Marcinelle Bois du Cazier per il Belgio, Zabrze ZKWK Guido per la Polonia, NCMME National Coal Mining Museum for England per il UK, Deutsches Bergbau Museum di Bochum per la Germania

Inoltre, il Museo del Carbone fa parte del ERIH (European Route of Industrial Heritage), la rete europea di itinerari di archeologia industriale che comprende oltre 1000 siti in rappresentanza di 43 stati. La Miniera di Serbariu fa parte degli Anchor Points, i prestigiosi siti chiave che compongono l’itinerario principale; quale Anchor Point, il CICC è inserito in due European Theme Routes relative rispettivamente all’Industria mineraria e ai Paesaggi industriali

Info:

Museo del Carbone – Centro Italiano della Cultura del Carbone
Grande Miniera di Serbariu 09013 Carbonia (CI)
Tel. e fax Uffici +39 0781 670591 Tel. Biglietteria +39 0781 62727
www.museodelcarbone.itinfo@museodelcarbone.it

Sito archeologico industriale: Grande Miniera di Serbariu
Settore industriale: Industria mineraria
Luogo: Carbonia Iglesias – Sardegna
Proprietà/gestione: Comune di Carbonia/CICC Centro Italiano della Cultura del Carbone
Testo a cura di:CICC Centro Italiano della Cultura del Carbone

 




Il Villaggio operaio di Crespi d’Adda – sito Unesco

Il villaggio di Crespi d’Adda, in provincia di Bergamo in Lombardia, racconta di un villaggio ideale del lavoro: un piccolo feudo dove il castello del padrone era simbolo sia dell’autorità che della benevolenza, verso i lavoratori e le loro famiglie.

Sito UNESCO, il Villaggio operaio di Crespi d’Adda rappresenta la più importante testimonianza in Italia del fenomeno dei villaggi operai e, insieme al Villaggio Leumann, alla città di Schio, è uno dei più mirabili esempi di archeologia industriale in Italia.

L’UNESCO ha accolto nel 1995, Crespi d’Adda nella Lista del Patrimonio Mondiale Protetto in quanto “Esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa”.

Crespi d’Adda: un luogo fuori dal tempo

Crespi d’Adda è una città dove bisogna orientarsi non con un libro o una mappa, ma con lo stesso camminare a piedi, con la vista, l’abitudine e l’esperienza. Qui, spazio, tempo e architettura sono un tutt’uno. Quello che state per conoscere è molto di più di un esempio insigne della storia architettonica. Il villaggio industriale di Crespi d’Adda è un prodotto dell’opinione eccessivamente raffinata dell’Ottocento secondo cui le cose utili potevano e dovevano essere anche belle, e ciascuno aveva l’assoluto dovere di fare ogni cosa nel modo più elegante possibile. È un viaggio dentro una aspirazione industriale e alle origini di una utopia, in fondo ad una storia di macchine e di formiche, di ostinazione e di illusioni, di presunzione e di fatiche disumane. È il resoconto della testarda volontà di un uomo ricco, autoritario, ostinato a portare avanti i suoi sogni e di suo figlio che cercherà di realizzarli compiutamente. È la vicenda del luogo che doveva diventare, all’inizio di questa storia, nel 1876, un modello ideale ma che si è trasformato in una miraggio irraggiungibile, nel segno evidente di una decadenza prematura e ineluttabile. È l’appassionante cronaca dell’ascesa di un sogno e del declino di una ambizione.

Il villaggio industriale di Crespi d’Adda è la città che cambia al ritmo del lavoro.
È la dimostrazione della smisurata fiducia nel progresso, nel lavoro e nell’industria.
Marco Iannucci dettaglia che “Crespi d’Adda non è stato modellato dalla vita ma da un’idea. La vita è un miscuglio di esigenze disordinate e contraddittorie. Qui l’atmosfera è diversa: da un lato più nitida, dall’altro è come se mancassero alcuni segni della vita a cui siamo abituati. E tutto ha qualcosa di sospeso e un po’ irreale”.

La storia della Fabbrica e del Villaggio di Crespi d’Adda, perla dell’archeologia industriale

Il Villaggio prende il nome dai Crespi, famiglia di industriali cotonieri lombardi che a fine Ottocento realizzò un moderno “Villaggio ideale del lavoro” accanto al proprio opificio tessile, lungo la riva bergamasca del fiume Adda.

Autentico modello di città ideale, il Villaggio di Crespi d’Adda ha costituito una delle realizzazioni più complete ed originali nel mondo e si è conservato perfettamente integro – mantenendo pressoché intatto il suo aspetto urbanistico e architettonico.

Il Villaggio Crespi d’Adda è una vera e propria cittadina completa costruita dal nulla dal padrone della fabbrica per i suoi dipendenti e le loro famiglie. Ai lavoratori venivano messi a disposizione una casa con orto e giardino e tutti i servizi necessari. In questo piccolo mondo perfetto il padrone “regnava” dal suo castello e provvedeva come un padre a tutti i bisogni dei dipendenti: dentro e fuori la fabbrica e “dalla culla alla tomba”, anticipando le tutele dello Stato stesso. Nel Villaggio potevano abitare solo coloro che lavoravano nell’opificio, e la vita di tutti i singoli e della comunità intera “ruotava attorno alla fabbrica stessa”, ai suoi ritmi e alle sue esigenze; una città-giardino a misura d’uomo, al confine tra mondo rurale e mondo industriale.

Fabbrica e villaggio di Crespi d’Adda furono realizzati a cavallo tra Otto e Novecento dalla famiglia di industriali cotonieri Crespi, quando in Italia nasceva l’industria moderna. Era questa l’epoca dei grandi capitani d’industria illuminati, al tempo stesso padroni e filantropi, ispirati a una dottrina sociale che li vedeva impegnati a tutelare la vita dei propri operai dentro e fuori la fabbrica, colmando in tal modo i ritardi della legislazione sociale dello Stato stesso. L’idea era di dare a tutti i dipendenti una villetta, con orto e giardino, e di fornire tutti i servizi necessari alla vita della comunità: chiesa, scuola, ospedale, dopolavoro, teatro, bagni pubblici… Nato nel 1878 sulla riva dell’Adda, in provincia di Bergamo, anche questo esperimento paternalista ebbe inesorabilmente termine – alla fine degli anni Venti – con la fuoriuscita dei suoi protagonisti e a causa dei mutamenti avvenuti nel XX secolo. Oggi il villaggio di Crespi ospita una comunità in gran parte discendente degli operai che vi hanno vissuto o lavorato; e la fabbrica stessa è rimasta in funzione fino al 2003, sempre nel settore tessile cotoniero.

Il Villaggio Crespi d’Adda ed il paesaggio

Il paesaggio che ospita Crespi d’Adda è davvero singolare: il villaggio è inserito in una sorta di culla, un bassopiano dalla forma triangolare che è delimitato da due fiumi confluenti e da un dislivello del terreno, una lunga costa che lo cinge da nord. I due fiumi sono l’Adda e il Brembo, che formano una penisola chiamata “Isola Bergamasca”, alla cui estremità si trova appunto il villaggio; mentre lungo la citata costa correva anticamente il “Fosso Bergamasco”, linea di confine tra il territorio del Ducato di Milano e quello della Repubblica di Venezia. L’isolamento geografico è poi accentuato dal fatto che il villaggio è collegato all’esterno soltanto in direzione Nord. Oggi queste caratteristiche geografiche e il grado di emarginazione che esse hanno implicato ci aiutano a capire come Crespi d’Adda si sia potuta conservare in modo così straordinario, nascosta ed estranea allo sviluppo caotico dell’area circostante.

Il Villaggio Crespi d’Adda è l’aspetto urbanistico

L’aspetto urbanistico del villaggio è straordinario. La fabbrica è situata lungo il fiume; accanto il castello della famiglia Crespi, simbolo del suo potere e monito per chi vi giunge da fuori. Le case operaie, di ispirazione inglese, sono allineate ordinatamente a est dell’opificio lungo strade parallele; a sud vi è un gruppo di ville più tarde per gli impiegati e, incantevoli, per i dirigenti. Le case del medico e del prete vigilano dall’alto sul villaggio, mentre la chiesa e la scuola, affiancate, fronteggiano la fabbrica. Segnano la presenza e l’importanza dell’opificio le sue altissime ciminiere e i suoi capannoni a shed che si ripetono in un’affascinante prospettiva lungo la via principale, la quale, quasi metafora della vita operaia, corre tra la fabbrica e il villaggio, giungendo infine al cimitero.

Il Villaggio Crespi d’Adda è l’architettura

A Crespi d’Adda si annovera notevole diversità di stili, oscillante tra classicismo e romanticismo. La villa padronale ripropone lo stile medioevale trecentesco mentre la chiesa è copia esatta della rinascimentale S.Maria di Busto Arsizio, paese d’origine dei Crespi. Le altre costruzioni sono tutte di gusto neomedioevale, con preziose decorazioni in cotto – care al romanticismo lombardo – e finiture in ferro battuto. Neomedioevale anche l’opificio, che esprime la massima celebrazione dell’industria nell’ingresso centrale, tra le fastose palazzine degli uffici dirigenziali. Il cimitero, di gusto esotico e di stile eclettico, è monumento nazionale: al suo interno la cappella Crespi, una torre-piramide di ceppo e cemento decorata si erge ad abbracciare le tombe operaie, piccole croci disposte ordinate nel prato all’inglese.

Scopriamo il Villaggio di Crespi d’Adda insieme a chi lo vive

Non soltanto la piacevole passeggiata della domenica ma dei meravigliosi tour originali a Crespi d’Adda.
Dalle percorsi guidati della domenica alle visite guidate in notturna con animazione teatrale… questo e molto altro per scoprire la storie e le storie di questo villaggio industriale dell’Ottocento.
A piedi o in bici, da soli o in compagnia della famiglia o degli amici, l’Associazione Crespi d’Adda accompagna il visitatore all’interno tra la storia del Villaggio Operaio di Crespi d’Adda.

Da diversi anni l’Associazione Crespi Cultura, realtà locale con sede nel Villaggio, indirizza lo sviluppo turistico verso un modello sostenibile e a valenza culturale: i depositari della storia locale, residenti e discendenti degli ex dipendenti del cotonificio, accompagnano i visitatori, in particolare scolaresche, alla scoperta di Crespi e delle sue chiavi di lettura. Essere abitanti e, allo stesso tempo, operatori culturali consente di raccogliere e fare propria la molteplicità di sguardi sul significato, sul valore e sulle opportunità del sito. Grazie soprattutto alle visite guidate il Villaggio è divenuto nell’immaginario un bene collettivo da conservare e valorizzare, luogo caro alla comunità locale ed a migliaia di visitatori.

 

Informazioni e prenotazioni visite guidate:

Associazione Crespi d’Adda www.crespidadda.it / info@crespidadda.it /
tel.0039 331 2935312

Associazione Crespi Cultura – www.villaggiocrespi.it / info@villaggiocrespi.it
tel: 0039 02 90987191

Hanno parlato del Villaggio Operaio di Crespi d’Adda – Sito Unesco:

UNESCO Chair Forum University and Heritage – Newsletter n. 99 clicca qui

Sito archeologico industriale: Villaggio Operaio di Crespi d’Adda
Settore industriale: Settore tessile
Luogo: Crespi d’Adda – frazione del comune di Capriate S. Gervasio – Bergamo – Lombardia
Proprietà/gestione: mausoleo, abitazioni, fabbrica e castello sono di proprietà privata (fabbrica e castello sono stati acquistati da Antonio Percassi, titolare dell’omonimo Gruppo Percassi) ; chiesa, ambulatorio medico e casa del prete sono di proprietà della parrocchia; scuole/asilo, teatro, strade, pineta e cimitero sono di proprietà del comune.
Testo a cura di: Introduzione “Crespi d’Adda: un luogo fuori dal tempo” a cura di Associazione Crespi d’Adda. Testo a seguire a cura di Associazione Crespi Cultura

 




La Fabbrica di liquirizia Amarelli in Calabria

La Fabbrica di liquirizia Amarelli a Rossano, in Calabria, un esempio unico di impresa familiare che ha saputo coniugare tradizione ed innovazione, rappresenta una testimonianza preziosa di archeologia industriale.

 

La pianta della liquirizia, conosciuta ed impiegata da circa 35 secoli, è presente in molti paesi, ma – secondo quanto autorevolmente afferma l’Enciclopedia Britannica – la migliore qualità di liquirizia “is made in Calabria”.

La famiglia dei Baroni Amarelli è legata alla produzione della liquirizia sin dal 1500.
Nel 1731, secondo la tradizione, viene fondato l’attuale “concio”, manifattura di esclusiva proprietà familiare, alla cui attività fu dato particolare impulso nel 1800 con il miglioramento dei trasporti marittimi e con i privilegi e le agevolazioni fiscali concesse dai Borbone a queste industrie tipiche.

Intorno al 1840 abbiamo testimonianza della vasta attività di Domenico – allargata fino alla capitale, Napoli – e di quella dei suoi discendenti, per giungere a Nicola che nel 1907 (come descritto nella Rivista Agraria dell’Università di Napoli) ammodernò la lavorazione con due caldaie a vapore destinate, rispettivamente, a preparare la pasta di radice e ad estrarne il succo, mentre una pompa a motore da 200 atmosfere metteva in azione i torchi idraulici per comprimere di nuovo la pasta e ricavarne altro liquido.

L’azienda Amarelli ha ancor oggi la propria sede in un’antichissima dimora di famiglia, edificio risalente al 1400 almeno per quanto riguarda l’impianto basilare, mentre l’attuale facciata è del 1600 (esclusa un’ala ricostruita duecento anno or sono dopo un incendio). La costruzione, che fa parte dell’Associazione delle Dimore Storiche Italiane, presenta l’aspetto di una struttura di difesa di impronta feudale, con un’imponente corpo di fabbrica al centro di un agglomerato abitativo, costituito dalle case di coloro che operavano nell’azienda.

Il complesso, nella sua interezza, è, purtroppo poco visibile perché la superstrada ha tagliato in due, con un devastante intervento, questo bell’esempio di organizzazione difensivo-lavorativa, ma la mole del palazzo conserva tuttora il suo fascino.

In questo edificio sono alloggiati la Direzione, il Tourist Office, uno shop e il Museum Café; in un’altra ala della stessa struttura è ospitato il Museo della liquirizia “Giorgio Amarelli”, mentre gli uffici amministrativi sono ubicati in un’antica costruzione di recente elegantemente restaurata.

Di fronte, accanto ai capannoni del reparto produzione, svetta la ciminiera della caldaia, museo di se stessa, che porta la data del 1907 e che fu considerata, all’epoca, un impianto modernissimo. Ancora funzionante, anche se non più attiva, veniva alimentata con la sansa, residuo della lavorazione delle olive dopo averne estratto l’olio.

Nei capannoni dove si lavora la liquirizia troviamo ancora una grande macina di pietra del 1700, ovviamente non più utilizzata, che serviva per schiacciare i rami di liquirizia. Qui la lavorazione non è dissimile da quella mirabilmente descritta e illustrata dai grandi viaggiatori del diciottesimo secolo, fra cui l’Abate di Saint-Non, ma ogni processo è adeguato in base alle più esigenti prescrizioni in tema di igiene e sicurezza sul lavoro, tuttavia c’è ancora un “mastro liquiriziaio” che controlla l’esatto punto di solidificazione del prodotto.

Nel centro storico della Rossano antica, vi è, infine, un Palazzo Amarelli risalente alla prima metà dell’Ottocento, dove erano ubicati altri Uffici Amministrativi dell’Azienda, mentre attualmente, al piano terra sul Corso Garibaldi, ci sono ancora le vetrine di un vecchio punto vendita della liquirizia Amarelli allestito con i medesimi arredi di un tempo.

Oggi, la gamma dei prodotti “Amarelli” comprende tutto quanto si può ricavare dalle radici di liquirizia: dal semplice bastoncino di legno grezzo ai prodotti più fantasiosi come il liquore, la birra, la grappa, il cioccolato, i biscotti e altro ancora. Con la sua produzione la Amarelli è presente in tutti i mercati nazionali, in Europa, nell’America del Nord ed in quella meridionale, in Oriente ed in Australia.

Archeologia Industriale: Il Museo della liquirizia Giorgio Amarelli e l’Archivio Amarelli

Il 21 luglio 2001 si è inaugurato il Museo della liquirizia “Giorgio Amarelli”. La famiglia Amarelli ne ha voluto fortemente la realizzazione nel desiderio di presentare al pubblico una singolare esperienza imprenditoriale, nonché la storia di un prodotto unico del territorio calabrese: in mostra preziosi cimeli di famiglia, utensili agricoli, una collezione di abiti antichi da donna, uomo e bambino a testimoniare l’origine familiare dell’azienda e, infine, macchine per la lavorazione della liquirizia, documenti d’archivio, libri e grafica d’epoca.

Il 26 novembre 2011 viene inaugurata una nuova sala del Museo della liquirizia “Giorgio Amarelli”, la galleria della modernità e del presente. Fra antichi tralicci e guidati dalla fascinosa luce di alcune lampade Edison si dipana la storia dell’introduzione dell’energia trasportata e della rivoluzionaria trasformazione avvenuta nell’organizzazione delle imprese e, nello specifico, nel “Concio” Amarelli. Internazionalizzazione, creazione di nuovi prodotti dove la liquirizia si declina con gusto e fantasia, apertura all’alta ristorazione e confezioni rispettose dell’ambiente che riproducono antiche immagini sono in mostra attraverso il filo conduttore dell’elettricità e dell’elettronica con la proiezione verso un futuro sempre più sofisticato e tecnologico.

Con decreto del Ministero per i Beni e le attività Culturali del 20 dicembre 2012 l’Archivio Amarelli è stato dichiarato d’interesse storico particolarmente importante. L’Archivio è conservato presso il Museo della Liquirizia e raccoglie documenti della famiglia e dell’impresa dal 1445 ad oggi.

Il Museo della liquirizia Giorgio Amarelli fa parte dell’Associazione Museimpresa.

Premi e riconoscimenti per la Fabbrica di liquirizia Amarelli

Le liquirizie Amarelli hanno ricevuto, fin dal secolo scorso, una diversi riconoscimenti e premi, tra i quali:

Nel 1987 l’Azienda ha ottenuto la medaglia d’oro della Società Chimica Italiana, per aver saputo coniugare la più avanzata tecnologia con il rispetto della tradizione tipica artigianale.

Nel 1996 l’Azienda è stata cooptata nell’Associazione internazionale “Les Hénokiens”, con sede a Parigi.
Per essere chiamati a far parte di questa associazione è necessario che le Aziende rispondano, contemporaneamente, a tre criteri indispensabili per l’ammissione:

1. antichità, rappresentata da almeno duecento anni di vita aziendale e comprovata da documenti scritti originali;
2. rapporto di filiazione, ovvero che vi sia una discendenza diretta degli attuali proprietari rispetto al fondatore;
3. dinamismo e buon andamento finanziario, nonché le prove di essere un attore del tessuto economico del proprio paese e del proprio mercato.

Il 17 novembre 2001 la Amarelli, ha ricevuto a Venezia il Premio Guggenheim – Premio Speciale Il Sole 24 Ore – assegnato alla migliore azienda debuttante.

Nell’Aprile 2004 le Poste Italiane hanno dedicato un francobollo al “Museo della Liquirizia Giorgio Amarelli” appartenente alla serie tematica “Il Patrimonio Artistico e Culturale Italiano”, emesso in 3.500.000 esemplari.

Nel 2008 l’azienda riceve il premio Leonardo Qualità Italiana e viene chiamata a far parte del Comitato Leonardo, Italian Quality Committee.

Nel 2012 nasce l’Unione Imprese Storiche Italiane, la Amarelli viene invitata ad essere socio fondatore e la vicepresidenza viene affidata a Pina Amarelli la quale, inoltre, ricopre l’incarico di Presidente del Distretto dell’Italia Meridionale.

 

Info:
Museo della Liquirizia Amarelli
SS 106 – Contrada Amarelli 87067 Rossano (CS) Italy
Tel 0983 511 219 www.museodellaliquirizia.it / www.amarelli.it / info@museodellaliquirizia.it
Tutti i giorni è possibile visitare il Museo e di mattina, dal lunedì al venerdì, si può seguire anche il ciclo produttivo dalla radice alla liquirizia.
Le visite sono guidate e vanno prenotate.

 

Sito archeologico industriale: La Fabbrica di Liquirizia Amarelli
Settore industriale: Settore alimentare
Luogo: Rossano – Cosenza -Calabria
Proprietà/gestione: Famiglia Amarelli
Testo a cura di:Museo della Liquirizia Amarelli